Pretenziosamente dostojewskiano questo titolo, che poteva alludere anche a “Memoria dalla casa dei morti” e non al “sottosuolo”, perché c’è qualcosa di morto nella nostra società civile, che l’ha mutata antropologicamente. L’imbarazzo stava in quella “casa” che l’autore non sapeva bene come definire, col rischio di venir accusato di faziosità. L’autore consegna a questa pubblicazione 10 anni di appunti sui fenomeni di malcostume e di mala politica, riprendendo lo spirito della più popolare satira latina (Marziale ad esempio) e con l’intenzione a volte offensiva suscitata dalla insofferenza verso l’arroganza di molti personaggi mediocri e lestofanti che ci hanno rovinato la vita in questi ultimi 20 anni. L’intenzione è quella di ridere di pancia, a crepapelle ma, nel profondo, non si coglie che un “riso amaro”, per parafrasare un noto film. [Dalla presentazione]
Prologo (à la manière de monsieur Verlaine[1])
Andate innanzi parole suicide
nel vento dell’ignavia. Io vi seguo
di lontano spaesandomi nel tedio
d’una bellezza di sussurri e grida
a caso mescolate nell’odierno
calderone del non senso italiano.
A voi consegno il senso antelucano
del mio paradiso e del mio inferno
quaggiù, dove si sgomita per dare
un volto all’horror vacui che ci impone
un folle dire scisso dal pensare.
Batterò in lieve ritmo di scarponi
fuoritempo. Mi lascerò chiamare
non poeta ma nuvola in calzoni [2]
(spero soltanto, senza far cagnara,
d’esser vero e di rompere i coglioni).
Sonetto quasi in prosa
É certo una sentenza epocale
a condannare il magnate di Arcore
che si sente trattato come Tortora
– peraltro non da un solo tribunale -.
Ma l’Italia… è l’Italia e chi non frega
è guardato con tedio e diffidenza,
poco rubare è segno di demenza:
si ruba molto, si fa e poi si nega.
Accusa il ladro il suo accusatore
si autoassolve dal proprio peccato
si dice vittima d’astio e rancore;
si crede invero un gran perseguitato
da reintegrare al suo posto d’onore
– per non rischiare un colpo di Stato -.
***
Quando citrullo io venni
a pormi coi Partiti in disciplina
l’uno di quelli mi pigliò per mano;
e tutto un santo giorno
mi accompagnò d’intorno
a veder l’officina.
Mostrommi a parte a parte
gli strumenti dell’arte,
e i vantaggi diversi
a che ciascun di loro
s’adopra nel lavoro
disonesti e perversi.
Io mirava, e chiedevo:
dimmi, l’onestà ov’è? Rispose il reo:
l’onestà è defunta; or facciamo senza.
Ed io, ma di rifarla
non vi cal, soggiungea, quand’ella è infranta?
Rispose: hassi a rifar, ma il tempo manca.
(da Giacomo Leopardi)
(Archiloco, D.15)
Fico cassanotto che agli occhi ti offri di molte lombarde
senator villoso, speranza delle tarde.
(Archiloco, D.2)
Impastata è la polenta nel paiolo,
nel boccale il vino che m’impasta,
al boccale io m’aggrappo quando parlo.
(Archiloco, D.26)
Puzzava di vino, di feccia, di grappa,
anche uno scemo non l’avrebbe votato.
(Saffo, D. 2)
A me sembra sfigato e come un ciuco
l’uomo che siede a te dinanzi, ed ode
da vicino le ignobili imposture
e le panzane
tue quotidiane. E subito nel petto
si arresta il mio cuore: se io ti vedo
solo un poco vorrei prendere a sberle
il tuo faccione.
Mi si secca la gola, ed una rabbia
sottile si diffonde per le membra,
non vedo più nulla, ho il fumo negli occhi
romban gli orecchi.
Freddo sudor m’inonda, e più ti vedo
più mi stizzo, più irato d’una serpe
mi sento, e non desidero altro che
sfasciarti a pugni.
Ma sopportare quasi tutto si può…
(Saffo, D.25)
O Cipride, o Nereidi, pesto e gonfio
torni il losco nanetto da Strasburgo
qualsiasi cosa nel suo cuore brami
gli vada in mona. [3]
E gli errori fatti, tutti li paghi,
sia inviso agli alleati, tormentato
dai nemici, e infine a noi più non giunga
alcun affanno.
E partecipe siano della sua sfiga
Fini, Bossi e coloro che tormentano
i nostri amari giorni e ci importunano
sadicamente
corrucciando…
(Saffo, D.61)
Quale zotico gonzo t’ha sedotto
vestito d’una lurida maglietta
che neppure si cambia di domenica
e nemmeno a Natale?
(Alcmane, D.94)
Più non lo reggo D’Alema, amici del centro sinistra,
al vederlo m’abbuia la vista, ma se parla, se parla…
mi passeggia sui nervi mi fa proprio girare i Maroni
zittitelo, di grazia, è più tedioso ancora di Veltroni.
(Stesicoro, D.11)
Non è vero questo racconto:
tu non volevi appoggiare l’Ulivo
ma tu volevi appoggiarti all’Ulivo.
***
S’ingrugna – innanzi al povero cronista –
trinariciuto, loffio e dilavato
dice parole ma soltanto il fiato
gli esce – pestilente – e anche la vista
fugge in chissà quale orizzonte morto.
Stromba di naso, guaisce, inveisce
sa lui perché – o forse l’incupisce
del suo patron la sorte, perché storto
andò il colpo di quella ruberia
di tanti anni fa, e la gattabuia
rischia fra lazzi e cori d’alleluja
se prima non ripara in Tunisia –.
S’ingrugna e accusa tutta la sinistra
ne fa un principio di democrazia
e di libertà; una geomanzia
di sventure declama e il giornalista
strabuzza l’occhio, come intimorito
dal ciclone lardoso che l’investe
con tanta foga, ora che le feste
e le mignotte sono incenerito
ricordo d’un’antica libertà
perduta – che è tutto, se la scopri:
la libertà di farsi i cazzi propri –.
Monologo di Miss Holly Jatine
Ci vogliono duemilaecinquecento
euri al mese al mio tono di puttana
di lusso (“escort”, come la mondana
cronaca scrive per fare contento
il concetto bigotto del decoro)
non bastano… ci vogliono i regali
le feste, lo squittìo dei maiali
(maiali sì, dentro, ma fuor dal coro,
per così dire, fuori da ogni regola
sopra ogni convenzione) che mi prendono,
mi spogliano, mi ammirano, mi sbattono
quel poco che possono finché l’ugola
sfiata un fiero grugnito di piacere.
Un sorriso, un ammicco e poi la stanza
un letto e senza alcuna titubanza
mi piantano le unghie nel sedere
e poi spingono, strombano, bofonchiano
e crollano di crapula e di sonno.
Io li osservo dormire e penso al nonno
di ier sera – più vivo… – ma ci vogliono
per il mio rango anche un po’ di milioni,
non soltanto un ber paro de cojoni. [4])
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[1] Riferimento al prologo di Jadis et naguère
[2] ) Riferimento al noto poemetto di W. Majakowskij
[3] Tipica espressione veneta, traducibile con “gli vada tutto storto”.
[4] ) Citazione da un sonetto di Francesco Di Stefano in Er monno gira ancora come allora, CFR, 203: “ortre ch’a testa e anima sincera / ce vò puro un ber paro de cojoni”.