Magazine Diario personale

Seguendo Mantegna

Da Parolesemplici

Seguendo MantegnaLa storia che mi ha guidato verso questa città di mattoni perduta nelle nebbie della bassa, inizia con una bomba alleata (ma di chi sono alleate le bombe?) che polverizzò la cappella Ovetari, con la chiesa degli Eremitani e il ciclo delle storie di san Giacomo. In quella chiesa, che stavano ricostruendo, sono cresciuto, tirando pigne e correndo sui marmi, nascondendo munizioni dietro l’altar maggiore, ma questa è un’altra storia. Quindi fu il Mantegna che mi portò a Mantova la prima volta. A me piaceva quel particolare della freccia nell’occhio del tiranno nel martirio di san Cristoforo, la sua lezione che al male torna il male. Ancor più mi piaceva quel tappeto così perfetto nella tragedia, le finestre su cui si appoggiavano i soliti perditempo che guardano le disgrazie, il corpaccione enorme in prospettiva, era un ritratto di un mondo che ben oltre la fotografia, raccontava più storie, più tempi, più pensieri che si annodavano, mescolavano, scioglievano, in un flusso che veniva verso me che vedevo. Naturalmente allora ero solo incantato, guardavo e mi perdevo nei particolari, ma lì nacque la voglia di vedere altro. E dove, se non a Mantova, potevo trovarlo.

La prima volta ci arrivai con un treno da periferia dell’impero, un treno che ancor’ oggi ci impiega tantissimo, tra campi e stazioncine, ma chissà, forse tu arriveresti da sud o da ovest e magari passeresti per Sabbioneta, ti fermeresti e non andrebbe bene. A Sabbioneta bisogna andare poi, dopo essere stati a Mantova, meglio nel mezzogiorno del giorno dopo, ma anche questa è un’altra storia. A me piace la strada che arriva dalla bassa, seguo l’ Adige e i paesi che via via si riempiono di mattoni a vista. La bassa padovana e veronese è bella, passa dai campi di grano alle risaie, percorre piccole cittadine murate. E Montagnana è bellissima, ma non ci si può fermare, si va a Mantova e la provinciale uno continua, cambia nome passa tra case e campi finché si arriva al Mincio, al lago, alla casa di Sparafucile. Qui dal lago, salgo a piedi, oltre la porta e la prima sensazione, è quell’acciottolato che sfocia nella piazza. Il Palazzo Ducale è lì con le sue file di persone che aspettano l’entrata nei giorni di festa, con l’idea che il Duca dal balcone saluti in ermellino gettando monete alla folla. Non mi piace il Duca, colpa di Rigoletto forse, ma con lui e con i Gonzaga bisogna fare i conti. Loro erano la città, la furbizia, la gloria, le chiacchere, le storie dei nani, la munificenza. Salgo, nell’infinito di questo palazzo punto alla Camera Picta, allo Studiolo di Isabella. Ci si può perdere lì dentro, ma non te lo lasceranno fare perché spingono, hanno fretta di vedere, quella fretta che tu non hai. Vedere, assorbire, farsi vedere dall’opera d’arte, richiede tempo, lo stesso che si usa, quando con rispetto, si prende in mano l’opera di un altro, Chessò, un mobile, un oggetto, una cornice e si pensa di farle riprendere vita. La mano passa sulle modanature, accarezza ascoltando con le dita i guasti.  Gli occhi percorrono, i pensieri sovrappongono, cercano di capire, scelgono. Le cose più intense sembrano solo l’effetto della cura di chi li fece o possedette e riportano alla luce particolari tra le ferite della vita, li mostrano come glorie di esserci.

Mantegna, allora, lo seguii a Palazzo Ducale e a Sant’Andrea e qui scoprii, che il Mantegna era altrove, in mille rivoli, ruberie, mutilazioni, vendite e miserie dettate dall’arte del vendere e disperdere il bello. Decontestualizzato, ammirato, tenuto da conto, ma non dove era stato pensato. Ma il suo spirito era ancora qui, non perché c’era la sua casa, ma perché la città dialogava con lui. Così lo senti nelle forme classiche, nel suo amore per il bello riscoperto, nel suo restaurare la forma degli antichi in questi posti di nebbia e di quiete, e mi viene il pensiero allegro che il Mincio è lo scarico di un lago che prima di gettarsi nel Po, ha bisogno di dilagare, di formare a sua volta un lago personale. E addirittura ne fa tre di laghi, che un tempo erano quattro e creavano un’isola, come se questo fosse un piccolo mare nella pianura. Minuscolo come i ducati di un tempo e smisurato nella fantasia che nasce negli uomini che sanno vedere.

Adesso ti porterei altrove, senza una meta precisa, bisogna camminare e fermarsi tra piazza delle Erbe e le vie che le stanno attorno. Ascoltare i rumori di questa città di agrari, gonfia di rendite solide, di campi che rappresentano le realizzazioni dei destini. Bisogna immaginare Tazio Nuvolari – qui c’è il suo museo- in  giugno, mentre corre in moto o su una Maserati tra le stradine – così le vedremmo ora- ficcate tra campi di grano, oppure di notte in una mille miglia irta di fari, di gente, di vino caldo. Bisogna immaginare la velocità del lampo e la sosta sudata, entrambi insieme, e mescolarla davanti a una tovaglia a quadretti rossi con il parlare fatto di vocali aperte, con le carte battute sul tavolo, con il vino rosso denso, con i risotti, gli gnocchi e le rane. Bisogna immaginare il giallo della zucca, questo è uno dei regni della zucca, il mescolarsi del dolce e del salato nei tortelli e negli gnocchi, il confluire del giallo nella sbrisolona. Bisogna fermarsi in quel bar d’angolo sotto i portici, appena fuori piazza Sordello, respirare, stare zitti e ascoltare. Ti mancherebbero un sacco di cose, se tu decidessi di partire ora, Giulio Romano e Pisanello, palazzo Te, palazzo Bonaccorsi. Ma soprattutto la bellezza di Leon Battista Alberti. Quando lo vedo la mia testa racchiude le forme in rettangoli, traccia diagonali e si accorge che la sezione aurea era davvero il riposo della perfezione. Ti perderesti scrigni di opere d’arte rimasti dopo le rapine, i laghi, la campagna attorno con i boschetti di pioppi lungo l’acqua. O forse no, non ti perderesti tutto questo, ma t’innamoreresti di un luogo e avresti voglia di tornare, di aggiungere, di sentire ancora, di più.

Per me bisogna camminare, fermarsi, ascoltare, perdersi tra stradine girando in tondo e lasciare il libro aperto, godere di una trattoria con cortile. I due cavallini ad esempio, oppure del legno sulle pareti di un caffè vecchio d’anni e di mediatori di campi e bestiame. Ho bisogno di tutto questo, e altro, magari non durante il festival della Letteratura, perché lì è bello andarci perché la città stessa diventa flusso e c’è un brulicare di idee, di voci che ti fanno pensare che lo scrigno si sia aperto e stia parlando con il cielo e che lo spettacolo sia fuori, nella gloria del dubbio e dell’intelligenza. 

Forse dovremmo parlare di risorgimento, da queste parti si costruiva l’Italia in campagna e sugli spalti di Belfiore, ma credo ti piacerebbe, se tu la vivessi come vivo io le mie piccole città, con un flusso di pensieri e sensazioni, con un mescolarsi che alla fine si consolida in un luogo del cuore. Il cuore fa posto e restituisce, è un galantuomo. Come avveniva da queste parti, basta un guardarsi negli occhi e una stretta di mano: affare fatto.

E questa o quella per me pari non sono.

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