Sei morti nel “reality” di Catania

Creato il 10 agosto 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

Fleba il fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare e il guadagno e la perdita.

Arrivano di continuo  fenici o naviganti della disperazione nella nostra terra desolata. Quella di stanotte è il bel lungomare di Catania, quella delle spiagge, della movida.   Nel mio ricordo ci sono grandi  palme ombrose e gelaterie dove si gustano il gelo e sorbetti profumati.

Ieri un peschereccio con 120 “fenici”, forse siriani, chissà, si è arenato vicino alla riva a 15 metri dalla riva. Sei di loro tutti giovani sotto i 30 anni, uno addirittura un ragazzino, sono annegati in un canale profondo tentando di raggiungere la bella spiaggia. E  i loro corpi sono rimasti per qualche ora là  sulla spiaggia del lungomare Playa, nei pressi del ‘lido Verde’, uno dei tanti stabilimenti balneari che si trovano sul lungomare Kennedy. Altro che Mission, altro che reality da guardare il televisione, ascoltando il dolce suono del ghiaccio nel bicchiere di scotch, corpi nudi irrompono nelle nostre vite, ingombrano, per poco temo, le nostre coscienze,   turbano la vista del mare che si allunga sulla battigia, pacifico e amico solo guardandolo dalla chaise longue.

Immigrati, clandestini, irregolari, qualcuno magari promosso a rifugiato, anche se tutti i “fenici” da ovunque vengano cercano rifugio dalla fame, dalla guerra, dalla pioggia o dalla siccità.

Compresi delle nostre “perdite”, rovesciati dall’opulenza all’indigenza, ci chiediamo cosa sperino di trovare qui, dove molti nativi, ricattati da pochi, rinunciano al domani per  l’unica certezza della fatica e della sopravvivenza. La gran parte di noi guarda a loro con occhi e sentimenti non diversi da quelli con i quali guardava i contadini che sciamavano tanti anni fa dal Sud verso il Nord, esigenti, affamati protervi, stranieri.

Siamo tutti stranieri gli uni per gli altri, ma noi rivendichiamo di essere fragilmente aggrappati a un’eco di identità, attaccati a una sostanza piccola o grande di privilegio o di ciò che prendiamo per tale, e che non ammettiamo in loro, come se per essersi sradicati, essere partiti su un peschereccio, su un barcone, su un gommone, avessero volontariamente rinunciato e perso il diritto all’appartenenza e guadagnato il dovere di assomigliarci, assumerci come modello da imitare e cui assoggettarsi, in cucina, in camera da letto, in chiesa.

In un’età nella quale i capisaldi di un’etica collettiva sono evaporati, dove la competizione aggressiva è norma crudele e l’opacità del futuro ha invaso l’immaginario e i nostri sogni si sono fatti incubi, comuni, ma vissuto ognuno per sé, dove la fiducia in qualcuno che ci rappresenti e difenda è precipitata nell’abisso del  risentito disincanto, sembra che traiamo forza nell’inimicizia e nella sopraffazione. Ascoltare, accogliere, arricchirsi della storia degli altri sembra solo una fatica, una esigenza morale dalla quale è preferibile dimettersi.

E se l’infamia aggressiva o ipocrita dei governanti italiani e di quelli europei dediti al sospetto doppiopesismo, per il quale diventano altri, irregolari, clandestini anche i popoli propaggine dell’Africa, che non si sono adattati al modello del pingue Belgio e della burrosa Germania, non smette di sorprendere, ancora più scandalo dovrebbe suscitare l’atteggiamento della “cultura”  , capace di un ulteriore sfruttamento, apparentemente indiretto ma addirittura più sordido, delle esperienze altrui. Quello della “sensibilizzazione” tramite convegni, pamphlet cotti in fretta, convegni e tesi,  sceneggiati e ora reality , magari confezionati per avere accesso a aiuti, cui finiscono per godere non chi deve essere aiutato ma chi dichiara di aiutare, in una sospetta privatizzane e personalizzazione della solidarietà, della compassione e delle pietas.

Non è raro leggere negli occhi di chi arriva attraverso le colonne d’Ercole della disperata avventura dell’immigrazione, il sospetto e la diffidenza, quasi pari alle nostre. Non è raro leggere la paura di chi è sospinto qui in dolorose zattere della Medusa che attraversano gli oceani delle disuguaglianze. Forse è bene ricordare che è la nostra stessa paura.


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