Nel corso degli ultimi mesi ci sono state molte polemiche sul web che riguardano da vicino il mondo della pubblicazione e della produzione di cultura online. Ma già più di un anno fa, di fronte all’imminente apertura di un mercato diverso da quello delle case editrici (Amazon.it), seppur con stile, si era cominciato a remare contro il nascente mondo dell’autopubblicazione.
Nell’ottica di chi è affezionato al vecchio mondo dell’editoria (a volte più degli stessi editori che si stanno dando da fare per cambiarlo), ogni autore che decide di autopubblicarsi perché crede in sé stesso ed in ciò che fa (mentre non crede più al lavoro delle case editrici), diventa un nemico, una sorta di zombie da abbattere prima che veicoli il virus. Per un autore che ha come scopo la pubblicazione in sé, e non essere letti o arrivare al pubblico, come sempre più raramente avviene, è difficile capire che si possa scegliere di non intraprendere una collaborazione con una casa editrice. Perché, anche se non sempre, dietro la pubblicazione c’è una scelta dell’autore, non un ripiego causato da un rifiuto del proprio manoscritto: “Uff, non me l’avete pubblicato? Allora faccio da solo come Amanda Hocking!”
C’era un tempo, in una galassia lontana lontana, in cui le case editrici erano degli deus ex machina che risolvevano tutti i problemi di un autore esordiente (mancanza di esperienza, contatti, capacità di fare editing e promuovere i propri scritti); quando l’autore esordiente aveva la fortuna di essere scelto tra tanti altri, ovviamente.
Ora, però, promettono ciò che non possono più fare (e le case editrici lo sanno bene; e se non lo sanno, lo sapranno presto). Non offrono più, per esempio, quei lettori che stanno fuggendo altrove.
C’è poi chi critica l’autopubblicazione dalla prospettiva del pubblico. “Il lettore sarà spaesato”, si dice nel tono lamentoso di chi denuncia una grave ingiustizia, “dal numero e dalla scarsa qualità degli scritti che saranno (sono) messi in circolazione”.
Ma le case editrici sono un’azienda come qualsiasi altra. Proprio un’azienda è Amazon o come lo è Simplicissimus. Non ha dunque più senso affermare – se mai lo ha avuto – che una casa editrice garantisca un filtro culturale proteggendoci dalla spazzatura dei tanti che vogliono fare da sé, come ho letto in questi giorni sul web. Gli editori, come qualunque altra azienda, non danno garanzie di qualità e non basano la loro attività su valori etici, ma sul guadagno. Se decidiamo di fidarci alla cieca, da lettori come da autori – lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Sacrosanto diritto di fare impresa; intoccabile il diritto di un autore, ora che è possibile scegliere, di rinunciare a partecipare a questo processo che ha più a che vedere con il guadagno che con la cultura.
Il punto vero è che anche l’arretrata società italiana è alle prese con un grande cambiamento. Molti usano la locuzione “democratizzazione culturale”, per descrivere questa rivoluzione; altri, rifacendosi a ben conosciuti periodi storici in cui la cultura si è abbassata (o meglio, si sono abbassate le barriere che consentivano di produrla), l’hanno definita come “volgarizzazione culturale”. Che in pratica significa più cultura per tutti e più cultura prodotta da (quasi) tutti. Vedere modello Wikipedia, per intenderci.
Granieri, nell’articolo linkato, spiega bene quale sia la reazione al processo che si nasconde dietro il dare dietro all’untore-autore autopubblicato. Vedete voi se il quadro dipinto nel post vi ricorda l’agire di qualcuno.
Tuttavia umanamente non sorprende che giudizi miopi continuino a venire da chi nell’editoria ci lavora. Spesso sono anche opinioni espresse in buona fede, ma così prive di un approccio obiettivo alla realtà del cambiamento, da strappare un sorriso.
Così come fanno sorridere gli argomenti citati a sfavore degli autori che decidono di autopubblicarsi. Tra questi, molti sono tranquillamente trasferibili anche alle case editrici che, strette tra la crisi e la rivoluzione digitale (se proprio vogliamo citare argomenti a loro discolpa), riserbano sempre meno cura al prodotto finale, anche nel caso di successi internazionali come Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di G. R. R. Martin. Dicevamo su Finzioni, in questi giorni, che l’edizione italiana dell’ultimo volume delle Cronache lascia a desiderare da molti punti di vista. E si può dare un’occhiata al kindle store per rendersi conto di come il lavoro della casa editrice abbia lasciato a desiderare e forse peggiorato la reputazione del libro. Per assurdo, se Martin si fosse pubblicato da sé in Italia, non cedendo i diritti, si sarebbe risparmiato l’infamia delle 2 stelline su 5.
L’impressione è che il modo di ragionare che contrappone il vecchio e nuovo modo di pubblicare sia solo un gigantesco specchio per le allodole che non aiuta a comprendere il cambiamento. In un momento, per giunta, in cui anche le case editrici italiane stanno facendo grossi sforzi per rinnovarsi.
Dietro la scelta del singolo autore mi pare ci sia più della semplice contrapposizione Editori tradizionali Vs. Autopubblicati. Lo dimostra l’interesse crescente delle case editrici per questi nuovi autori. I due sistemi, quelli delle case editrici tradizionali e quello degli autori fai da te, potrebbero collidere costruendo qualcosa di diverso?
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