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Semplicemente cineasta! Intervista a Alberto de Martino: Gli anni sessanta

Creato il 09 dicembre 2013 da Fascinationcinema

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Italo Zingarelli

Lei, parlando di Il gladiatore invincibile, il suo primo film, ha menzionato il produttore Italo Zingarelli. Nome di grandissimo rilievo, che con lei, si può dire, ha aperto un vero e proprio sodalizio…

Si, insieme abbiamo fatto tre/quattro film. Poi lui ha fatto i Trinità che non abbiamo fatto insieme per vari motivi. Ma io ero uno dei candidati…ce n’erano anche altri, ma io ero tra i primi della lista. Poi arrivò Barboni con il soggetto giusto e il film lo fece lui, ma io lavorai ad un soggetto, pensi, con Izzo (Renato n.d.r) e avevamo anche studiato il primo tempo. Zingarelli, però, non era convinto e nulla… Ma ti spiego meglio. Italo stava preparando un suo film da regista con Giovanna Ralli che era Una prostituta al servizio del pubblico e in regola con le leggi dello stato, che quando uscì andò molto male. Per fare questo film non ebbe il minimo garantito e quindi ripiegò su questo western, per cui gli diedero il minimo garantito. Insomma, riuscì a montare questo progetto, ma lui il film non lo seguì, lo portò avanti il fratello del suo socio. Zingarelli seguì solo la sceneggiatura, la scelta del regista, degli attori, perché stava lavorando al suo di film. Ma la coppia Terence Hill e Bud Spencer la scelse lui, grazie al successo dei film di Giuseppe Colizzi. Su Trinità lavorò il mio maestro d’armi, Giorgio Ubaldi, che era bravissimo. Tutte le gag e le scene d’azione diventate famosissime le ha inventate lui. Tipo quella della pistola e dello schiaffo, la pistola e lo schiaffo…è roba sua. Nessuno lo ricorda mai e nessuno gli dà merito di questo…

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Sergio Leone

Dato che stiamo parlando di rapporti importanti della sua carriera, lo so che glielo chiedono tutti, ma cosa mi può dire del suo rapporto con Sergio Leone?

Ah, con Sergio avevo un rapporto bellissimo, eravamo amici stretti…per la pelle. Io ho lavorato, come ho spesso detto, su Giù la testa

Mi può dire, esattamente, cosa ha girato su quel film.

Tutta la lunga sequenza del treno, verso la fine, e poi l’attacco dei peones, dei messicani. In tutto, nel film, ci saranno, almeno, dieci minuti miei…ma non consecutivi eh. Io, comunque, seguivo le indicazioni strettissime di Sergio. Ma è stato un rapporto magnifico. Lui era un grande. Ogni tanto, su Youtube, mi vedo le scene dei suoi film e sono sempre magnifici, anche Morricone non ha mai fatto musiche così belle come quelle che ha fatto per Sergio. Io, poi, ero il produttore esecutivo del film che doveva fare in Russia, L’assedio di Leningrado, e anche della serie televisiva, su soggetto di Sergio Donati, che doveva girare negli Stati Uniti, sulla Colt. Per il progetto russo era già tutto pronto; pensi che con il solo soggetto, brevissimo eh, Sergio era riuscito a farsi dare dai russi l’equivalente di venti miliardi in mezzi: carri armati, location… La sera prima della sua partenza per l’America, per firmare con loro, ci siamo sentiti e la mattina era morto. Lui aveva questo problema al cuore e sapeva che avrebbe potuto morire da un momento all’altro.

Tornando agli anni sessanta, con qualche eccezione, si può dire che i suoi tre generi principali, quelli in cui lascia un segno più significativo, quelli a cui si dedica di più, sono: il mitologico, il western e lo spionistico. Dei tre qual è quello a cui è più affezionato?

Guarda, ti dirò che per me il genere è secondario. Il presupposto con cui mi affacciavo ad un nuovo film, quello che cercavo di fare, era dare allo spettatore le emozioni che sentivo io, o che io avrei voluto provare da spettatore. Cercavo di dare al pubblico quello che voleva, ma partendo dalla storia e dai personaggi. Il genere in questo senso cadeva in secondo piano. Boh, per rispondere alla tua domanda…forse il western, ma non lo so. Quello che ti posso dire è questo. Io ho scritto un film che si chiama I sette gladiatori, che poi non ho diretto io, che era – si capisce dal titolo – ispirato a I magnifici sette. Quindi, posso dire di essere stato uno dei primi a fondere insieme mitologico e western. Ci sarebbero arrivati ugualmente, ma io sono stato tra i primi, se non il primo. Poi, il film non l’ho fatto io per questioni con gli spagnoli, con cui eravamo in debito…non ricordo, ma l’ha diretto uno spagnolo (Pedro Lazaga n.d.r).

Dopo Il gladiatore invincibile quanti film mitologici hai fatto da regista?

Dopo il primo, dovevo fare Perseo l’invincibile (1963). Quello doveva essere il mio secondo film, ma poi, come ti raccontai, il regista di Due contro tutti se ne dovette andare e io presi il suo posto. Poi, con Richard Harrison, di mitologico, non feci più nulla. Questi due sono i migliori  che ho fatto, ma ci sono anche Gli invincibili sette (1963), Il trionfo di Ercole (1964) e La rivolta dei sette (1964). Poi il filone si esaurì e nel frattempo Sergio Leone aveva fatto Per un pugno di dollari, inaugurando il western.

Ecco, passiamo al western, dato che l’ha menzionato. Il suo primo è Gli eroi di Fort Worth.

Quello non è un film a cui sono molto legato. Il protagonista era Edmund Purdom. Una brava persona che era anche un ottimo fonico musicale, una specie di hobby che aveva. Altra cosa è 100.000 dollari per Ringo comunque.

Cosa ricorda di quel film, di Ringo?

Eh… ricordo gli incassi… Guarda, se ci penso mi si stringe il cuore. Eravamo seduti su quel divano lì (dal tavolo a cui è seduto indica la parte opposta della stanza, verso il salotto, dove si trova un vecchio divano con un design démodé fiorito) e mi chiama il figlio del produttore, Marco, per comunicare gli incassi. ( si interrompe a causa della voce spezzata dall’emozione) Incredibile. Risponde mia moglie, che ascolta in silenzio, poi attacca il telefono e scoppia a piangere (ormai mentre parla i suoi occhi sono rossi) e io con lei. Commovente per me ripensare a quel momento….che posso fare?

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Del suo decennio è anche uno dei film che è rimasto di più nell’immaginario collettivo, tra quelli che lei ha girato…

Guarda, uno dei pochi che ha capito il sotto-testo di quel film è stato il critico Antonio Bruschini, che tra l’altro è morto, ho saputo, me lo hanno detto da poco, poverino, mi dispiace. Eh… lui è stato uno dei pochi, dicevo, che ha colto un aspetto importante di quel film. Il bambino del film si chiama Shane e chi è Shane? Il protagonista de Il cavaliere della valle solitaria (George Stevens-1953 n.d.r). La mia intenzione era quella di raccontare l’infanzia del protagonista del cavaliere della valle solitaria. Il mio film è quello che lo ha portato a vivere quelle esperienze. A proposito di nomi, tra l’altro, il nome di Ringo non è un riferimento ai film di Tessari con Giuliano Gemma, ma Ringo è il nome del personaggio di John Wayne in Ombre rosse. Poi, hanno trasmesso, qualche anno fa, il film a Venezia, in quell’evento sul western italiano e ci sono stati cinque minuti di applausi. Una cosa pazzesca. Ti ricordi? Applausi e qualche viso commosso per il finale. Io ho un cote un po’ melodrammatico nei miei film. Ci deve stare sempre la lacrimuccia finale. (ride, facendogli tornare il sorriso). Pensa anche al finale de Il consigliori.

Se non sbaglio, questo film, segna l’inizio della sua lunga collaborazione con Ennio Morricone.

Si, con Ennio, e delle volte anche con Bruno Nicolai, ho fatto otto film.

Cosa mi può dire dei suoi film spionistici? Lei ne ha fatti tre.

Missione Lady Chaplin (1966) e Upperseven (1966) mi sembrano i migliori. Il primo di questi lo feci con Amati. L’altro, però, è diventato un cult, soprattutto in Germania…

Ok Connery (1967) è quello più strano però. Un’operazione, forse unica, nella storia del cinema…

Si, si. Un idea-truffa diciamo. Prendemmo il fratello di Sean Connery e lo circondammo di tutti gli attori che avevano fatto i film di James Bond. Infatti, dentro c’è Anthony Dawson, grande professionista, Lois Maxwell, Adolfo Celi e Daniela Bianchi. Daniela con me ha fatto tre/quattro film ed è una delle attrici più belle con cui ho lavorato…

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Com’era questo Neil Connery?

Non era un attore e non è che assomigliasse poi tanto al fratello. Quando mi sono visto arrivare ‘sto tipo, persona molto carina, bravo ragazzo, l’ho anche incontrato di recente…però, quando l’ho visto mi sono reso conto che dovevamo cambiarlo. Per cui lo appioppai a mio padre, che per prima cosa gli cambiò i denti e poi, con due elastici nascosti, gli allargammo gli occhi. Infatti, poteva solo girare un certo numero di ore co’ ‘ste cose in faccia. Dato che non era, diciamo, all’altezza del fratello, come attore (ride), ci inventammo ‘sta cosa che lui ipnotizza la gente. Doveva solo fissare con le dita unite tra loro…

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Parliamo di una delle eccezioni ai generi che abbiamo menzionato prima. Subito dopo il suo ultimo vero western, Django spara per prima (1966) fai Dalle Ardenne all’inferno (1967). Cosa ricordi di questo film di guerra?

Era uscito poco prima un film, di cui non ricordo il titolo, ma che aveva avuto molto successo, un titolo celebre con Omar Sharif, che parlava di un’indagine che partiva dall’omicidio di una puttana. Si svolgeva durante la seconda guerra mondiale, ma non era, in senso stretto, un film di guerra (La notte dei generali-1967 n.d.r). Insomma, quindi, l’idea di Ardenne nasceva dalla volontà di fare un film di guerra, ma senza il lato bellico, non so se mi sono spiegato. L’idea, pensa come nascono i film, venne quando mi chiamò un amico che mi disse di aver letto su La settimana enigmistica che un gruppo di soldati tedeschi e di soldati americani si erano messi insieme per fare un colpo, per rubare in una banca. Da qui nasce l’idea. Ma ad un certo punto Edmondo Amati, il produttore, mi fece: “Ho venduto il film in tutto il mondo, ma questi si aspettano che sia un film de guerra. Mettiamoci almeno una battaglia.” Quindi ci siamo organizzati con carri armati, paracadutisti, e così via, e abbiamo girato la scena finale. Battaglia venuta bene e che dura pure parecchio. Anche in questo film c’è la lacrimuccia finale eh. Quando lei, alla fine, dice: “Non te l’ho mai detto, ma io sono ebrea.” “Si, lo so. L’ho sempre saputo e ti ho sempre amata.”

La scelta di Frederick Stafford nel ruolo del protagonista come avvenne?

Non si trovò di meglio.

Qual era il procedimento per la scelta degli attori?

Dipendeva da film a film, da caso a caso. Tramite agenzie e foto, generalmente. Poi, con alcuni attori americani molti grossi la cosa si complicava, come per John Cassavetes o Kirk Douglas. Nel caso di Kirk è stata una vera e propria avventura. Un critico scrisse dopo l’uscita di Holocaust 2000: “ Per soldi e per denaro ha fatto il film.” Io scrissi a questo per chiedergli di rimuovere questa frase, perché le cose non funzionano così. Accade che tu mandi il copione all’agenzia americana d’attori, se il progetto piaceva loro ti chiedevano la “film off”, cioè la data d’inizio della produzione, l’impegno e cosi via, ma il copione non glielo davano. Perché se la produzione era americana la colpa era delle major, ma se era europea e il film andava male allora la colpa ricadeva sull’agenzia. Per cui la sceneggiatura la davano all’attore per via trasversali, ad una festa, tramite amicizie. Capito? ‘Sto copione non glielo stavano dando a Douglas. Intervenne Carol Levi, che era la rappresentante italiana della William Morris, lo chiamò al telefono e gli disse: “Devi leggere questo sotto la mia responsabilità.” Serviva qualcuno che si responsabilizzasse. Lui poi lo lesse, gli piacque e fece il film.

Ha menzionato John Cassavetes, con cui ha fatto Roma come Chicago (1968), attore noto per essere stato molto difficile. Come si è sviluppato il vostro rapporto?

John un giorno amava tutti e un giorno odiava tutti. Ma cambi veramente violenti eh. Quando venne a Roma Gena Rowlands, non avevamo ancora cominciato il film, lui mi presentò: “Gena, this is Alberto the most intelligent native I met in Europe.” Lei si è avvicinata a me e mi disse: “Give him time.” (ride) Infatti, già dalla prima settimana iniziammo male e le liti si sono sprecate. Quando, a fine film, ci lasciammo mi fece: “Alberto it has been nice working with you these last few days.”

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Ma come si comportava? Cosa faceva per rendere le cose difficili?

Era matto. Non è che mettesse bocca nella regia o cose così eh, era semplicemente pazzo e imprevedibile. Ad esempio un giorno stavamo girando, gli spiego la scena e lui I don’t do this.” “Come I don’t do this?” “No, I don’t do this.” “Apposto, oggi non si gira, tutti a casa!” Allora, sentendo questo e capendo che poi rischiava magari anche di perdere soldi e di mettere a repentaglio il film, la scena la fece e disse “Ok. I follow orders.” Da quel giorno, però, come gli facevi una domanda: “Che dici se…? Ma questa scena ti va di farla così?” lui rispondeva: “I follow orders.” Un rompicoglioni. Poi, lo sai che a Montaldo (Cassavetes nel ’69 girò anche Gli intoccabili di Giuliano Montaldo n.d.r) non gli fece fare il primo piano della morte, alla fine del film.

Facciamo qualche passo indietro e recuperiamo qualche film che ci siamo persi per strada. Forse il più significativo excursus al di fuori dal mitologico e dal western è Horror (1963)…

Io l’ho scoperto qualche anno fa che è diventato un film di culto, mica lo sapevo. Guarda, ti dico la verità, io quel film non l’ho mai amato molto e poi l’ho rivisto di recente e sai che non è malaccio… (ride) Ci stanno delle cose graziose.

Quanto costò il film?

Sei milioni in tutto, era una co-produzione con gli spagnoli. Infatti, il cast è tutto spagnolo, anche se con me alcuni avevano già lavorato, come Leo Anchoriz, che sta in alcuni miei mitologici. Ci tengo ad aggiungere una cosa. Il film si fece, naturalmente, perché in quel momento andava il gotico, ma, se tu guardi il film, non è come quelli di Margheriti o di Bava. Poi, viene anche associato al gotico di quegli anni perché lo feci in bianco e nero, ma mica per esigenze stilistiche, semplicemente per abbattere i costi.

In effetti è un film che gioca tutto su atmosfere e suspence. Risulta un film molto classico.

Bravo, perché io mi sono rifatto molto più a Alfred Hitchcock. Sempre per quel discorso che facevamo sul fatto che nei miei film il genere è secondario.

Bello il titolo e, per l’epoca, particolare. Sulla locandina, poi, campeggia il nome di Edgar Allan Poe…

‘Na stupidaggine, ma non voluta da me, bensì dai produttori. All’epoca il nome di Poe vendeva. C’era stato il grande successo de Il pozzo e il pendolo per cui… Il titolo, invece, è opera di Zingarelli, che i titoli li voleva sempre scegliere lui.

Invece, di Femmine insaziabili (1969) che mi può dire?

Quel film è stato molto complicato. Nasceva con il titolo L’uomo palmolive, su sceneggiatura mia e di Ennio De Concini. L’idea era bella ed era l’occasione per fare qualcosa di diverso, ma poi Lombardo stravolse tutto.

Questo è il suo unico film erotico, diciamo. Come si poneva lei quando doveva girare scene più osé?

Io non mi trovavo a mio agio in quelle scene, poi il concetto di erotismo nasce dalla situazione, dall’atmosfera più che dal nudo. In quel film ci fu un macello con la Romina Power. La madre voleva rovinarmi (ride). Allora, durante una scena subacquea, l’operatore, un po’ a tradimento, le abbasso il costumino e per un attimo si vede il culetto. La madre di Romina andò da Lombardo dicendo peste e corna di me. Tornando al film, la storia in origine era di un uomo qualsiasi che veniva scelto come immagine della Palmolive, firma il contratto, va in America, diventa famoso e tutto gli va alla testa. Soldi, donne e fama. Doveva essere, passami il termine, una cosa più d’autore.

 

Eugenio Ercolani (Roma-2013)

Prima parte: Gli inizi.

La prossima puntata: Gli anni settanta e ottanta.

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HORROR (1963)

La giovane Emily (Iran Eory), insieme al fidanzato John e alla sua amica, decide di far visita a suo fratello Roderick, presso il castello dei Blackford. Ignara della inquietante presenza dello sfigurato vecchio lord Blackford, Emily è vittima di spaventose manifestazioni che inquietano la sua permanenza. Con lo pseudonimo di Martin Herbert, Aberto De Martino dirige uno gotico, seppur minore, molto interessante.

Horror, pur avvalendosi di una produzione spagnola, conserva tutte le caratteristiche stilistiche del gotico italiano a cominciare dalla scelta del bianco e nero, condizione stilistica dettata dal basso budget. Il tutto girato in un abbazia vicino Madrid. Un susseguirsi di cliché ben dosati (porte cigolanti, grida, spifferi di vento ecc.) dove la tematica del doppleganger è scandagliata nelle sue forme più canoniche, come la nevrosi scatenata dall’altro, che destabilizza quella logica che è alla base di ogni essere umano e che media quella lotta tra impulsi primari e rispetto delle norme sociali.

Sceneggiatura scritta a quattro mani da Bruno Corbucci e Giovanni Grimaldi i quali si servono dell’elegante sotto-testo de Il crollo della casa degli Husher, di Edgar Allan Poe filtrato, però, da Roger Corman. Un gotico contaminato dal thriller, dove il fantastico e le relative ambientazioni nascondono motivazioni reali. L’ultraterreno diventa mero strumento estetico, tipico di molti gotici coevi come La vergine di Norimberga (1964) oppure Un Angelo per Satana (1966).

Daniela Nativio

 


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