" La felicità consiste nel disprezzare i doni della fortuna e nel compiacersi della virtù" [...] "felice è colui per il quale non esistono il bene ed il male; ma soltanto uomini buoni e cattivi, e si compiace unicamente della virtù".
Lucio Annèo Seneca, nel IV capitolo del "D e vita beata" ci riporta nostalgicamente ad Aristotele, il quale, vedeva reincarnata la felicità solo nella virtù.
Le differenze tra i due concetti sono sottilissime, entrambi elaborarono le stesse tesi sulla felicità, ma Aristotele presupponeva un sommo bene, che essendo irraggiungibile diventava in una dimensione soggettiva, felicità. Diversamente, Seneca presupponeva la felicità come sommo bene, intesa, in questo caso, come dimensione oggettiva. Per Seneca la felicità è raggiungibile solo grazie alla ricongiunzione con la natura.
Per poter ben chiarire come si raggiunge la felicità, Seneca scrive al fratello questo "vademecum".
A differenza di Aristotele, qui Seneca non dice ciò che è giusto da seguire, ma ciò che " non devi assolutamente".
Ancora una volta si parla dei piaceri, che in filosofia sono intesi come veri e propri tiranni dell'animo umano e che ti allontanano dalla ragione, e solo allontanandoci da essi potremmo diventare saggi/virtuosi.
A questo proposito vengono mosse critiche al filosofo, essendo questi, completamente contornato da piaceri, egli però li condanna solo in parte ammettendo che possono comunque essere utili per arrivare alla virtù, dice infatti a riguardo" Tu apri le braccia al piacere, io lo tengo a freno, tu del piacere godi, io me ne servo, tu lo consideri il più grande dei beni, io non lo stimo neppure un bene, tu fai tutto per il piacere, io, per lui, non faccio niente di niente." (cap. X)Queste parole sono direttamente rivolte al fratello, usate forse per precisare che nonostante tutto egli non è assolutamente uno schiavo dei piaceri.
Nei capitoli successivi Seneca spiega cosa sia per lui la virtù e chi è il virtuso, quest'ultimo è colui che non cerca il piacere,ma se lo ritrova solo come "elemento accessorio", perchè egli del piacere se ne serve e soprattutto i piaceri:"il saggio li mescola e li frappone alla vita, come il gioco e lo scherzo si intercalano fra le severe occupazione".
Il piacere allora diventa come un qualcosa di malleabile e quindi, in questo caso, diventa lo schiavo del saggio/virtuoso.
Quest'ultimo è anche colui che conosce la libertá, che consiste non in un concetto "anarchico" di totalità, ma nell'ammissione che libero è solo colui che si conforma a Dio:"Accettiamo quindi con animo forte tutto ciò che c'impone la legge stessa dell'universo; ad accettare il nostro stato mortale e non lascarci turbare da ciò che non ci è dato evitare".
L'autore quindi afferma che " Il nostro è un mondo di schiavitù il solo modo per uscirne è ubbidire a Dio".
Da buon stoico Seneca non poteva abbandonare il concetto del" segui Dio" (antica massima dello stoicismo). Dicendo questo è ancora più forte l'idea secondo il quale, l'uomo è felice solo quando è conforme alla natura e non può in alcun modo essere tale se non riconosce alla natura il ruolo di nostra padrona.Il filosofo in questione ,dunque, non insegna la virtù come Aristotele ma ha ben chiaro cos'è la felicità. È, inoltre, più facile seguirlo perchè la legge è solo una; tradotta in termini moderni potrebbe consistere in: " io conosco Dio e Dio conosce me". E Dio puoi conoscerlo solo ammettendolo, solo se questi è virtù e solo se sei schiavo del tuo stato mortale che corrisponde alla spinta per diventare virtuosi, conformi alla natura e felici.