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Senritsu meikyū 3D (戦慄迷宮3D, The Shock Labyrinth 3D). Regia: Shimizu Takashi. Soggetto: Hosaka Daisuke. Sceneggiatura: Hosaka Daisuke. Interpreti e personaggi: Yagira Yūya (Ken), Maeda Ai (Rin), Renbutsu Misako (Yuki), Suzuki Matsuo, Masumoto Shōichirō, Katsuji Ryo (Moteki), Mizuno Erina (Miyu). Produzione: Miyazaki Dai, Ogura Satoru, Tanishima Masayuki per Asmik Ace Entertainment, Ogura Jimusho Co. Distribuzione: Asmik Ace Entertainment. Durata: 89'. Uscita nelle sale giapponesi: 17 ottobre 2009. Link: Sito ufficiale Punteggio ★1/2
Segnato dalla perdita della madre in tenera età, il ventenne Ken visita l’amico di vecchia data Moteki e la ragazza di quest’ultimo, la non vedente Rin. Giunti presso l’appartamento di Rin, i due ragazzi trovano ad attenderli una seconda donna, Yuki, una conoscente che entrambi non vedevano da diversi anni. Si scatena un temporale e, durante un blackout, Yuki perde i sensi. Allarmati, i ragazzi contattano la sorella di lei, Miyu, cercando di spiegarle l’accaduto, mentre nel frattempo Yuki riprende conoscenza, raggiungendo con i suoi soccorritori la dimora materna. Credendo la sorella maggiore morta da lungo tempo, Miyu non riesce a capire chi possa essere la persona che ha davanti, mentre la loro madre, trovandosi in uno stato di confusione mentale e non avendo superato la perdita della figlia, continua a vivere come se non se ne fosse mai andata, custodendo intatta anche la sua camera di bambina. All’interno della stanza, madre e figlia vengono colte dallo sconforto e Yuki perde nuovamente conoscenza. Moteki, Ken e Rin decidono allora di portarla in ospedale facendosi accompagnare da Miyu la quale continua a manifestare i propri dubbi sull’identità della presunta sorella. Nella sala d’attesa del più vicino pronto soccorso, un ambiente pregno di desolazione, Ken e Moteki scorgono l’inusuale presenza di alcuni bambini ed iniziano a seguirli, addentrandosi nel cuore dell’edificio. Attraversando i suoi lugubri corridoi i giovani capiscono che il luogo in cui si trovano non è un ospedale bensì la casa degli orrori del parco di divertimenti che dieci anni prima visitarono da bambini. Luogo dove entrarono di nascosto e in cui la piccola Yuki rimase vittima di un grave incidente dalle conseguenze mai chiarite. Il gruppo comprende di essere in pericolo, temendo che Yuki sia tornata per vendicarsi dell’oltraggio subito, causato dalla loro noncuranza.
Ad alcuni anni di distanza dalla sua prova americana con il seguito di Ju-on (2004) e l’incursione nel serial televisivo compiuta con alcuni progetti realizzati per le emittenti giapponesi, Shimizu tornava nel 2009 con un nuovo lavoro dedicato al cinema dell’orrore, nel tentativo (modestamente compiuto) di far collimare e congiungere gli elementi della terza dimensione con le angosce e le terrificanti atmosfere – infestate, in quest’occasione, anche da manichini semoventi – che lo hanno reso celebre nel corso della sua carriera. The Shock Labyrinth (titolo che ambisce ad affondare nei recessi della mente e portare alla luce le esperienze del passato sopite alla coscienza) è un’opera dallo svolgimento caotico che miscela il ricordo al presente, l’allucinazione al reale in un continuo e reciproco incontrarsi e sovrapporsi di piani temporali tra loro disgiunti ma che proprio da tale sovrapposizione pervengono ad una ragion d’essere che ne giustifica la possibilità d’incedere. Partendo da un contesto situazionale usuale (la visita ad un vecchio amico, l’emergere dei ricordi) e da una situazione chiave ormai consolidata (un’iniqua violenza e la necessaria vendetta di chi l’ha subita) Shimizu inscena una vicenda articolata, nell’intento di sfruttare l’incertezza della percezione, mettendo in discussione i principi che permettono di comprendere il mondo esterno, generando un crescendo di tensione all’approcciarsi del rimosso (di cui si rinnova visivamente la metafora del riemergere) che violentemente risale per intervenire sul singolo, divorato da un senso di colpa che non trova elaborazione. Componenti a cui il j-horror ha abituato il suo spettatore e che l’autore ripropone attraverso una diegesi ad incastro e priva di linearità (uno stile che aveva impiegato con successo ai tempi dei primi Ju-on direct-to-video), accavallando deliberatamente tempi e consequenzialità, conducendo l’accadimento ai limite del paradosso; perso però nel suo desiderio di stupire, il film si rivela restio ad una immediata interpretazione. È così che Shimizu e Hosaka pongono il passato a giustificazione del presente e l’accadimento del presente per tentare di delineare le conseguenze di ciò che è avvenuto in passato, sottoponendo la visione a scarti temporali continui e vicendevolmente necessari. Non esiste più una time-line unidirezionale, ciò che è accaduto appare compiuto in funzione di ciò che sta accadendo – Ken è co-partecipe ad un passato che si fonde nel presente ed un presente che era già accaduto nel passato. Un percorso rappresentativo rinnovato che si fa beffe di qualunque logica e conduce all’inverosimiglianza seppur nel territorio del fantastico.
A tale arbitraria costruzione, l’autore unisce la ricerca di nuovi percorsi, inanellando la componente del 3D per meravigliare il suo spettatore, se ancora non si è del tutto perduto nell’avanzare trasognato e bizzarro degli avvenimenti. Shimizu carica le immagini con un’enfasi compiaciuta e talvolta estenuante, come nel ralenti (più volte riproposto) di piume e particelle d’acqua che immobili gremiscono lo schermo, fuoriuscendo dalla dimensione bidimensionale fino ad investire il pubblico. Il dispendio di mezzi non sembra però apportare valore aggiunto all’operazione. Situazione che si ripete con il poco fortunato pupazzo a forma di coniglio, testimonianza e reliquia dell’altro da sé, capace anch’egli di oltrepassare lo schermo e fluttuare nell’aria come una spora virale. Un feticcio contaminante che diviene veicolo di orrore e morte e nella cui efficacia emozionale l’autore confida al punto d’averlo reintrodotto nei suoi film successivi, Rabbit Horror (2011) e l’imminente co-produzione americana 7500 (2013). Desiderio di innovarsi, regia e costruzione sintattica distinguono ancora i lavori del regista da quelli di diversi suoi colleghi, ma le componenti di maggior interesse (l’elaborazione del senso di colpa, il dramma della perdita e un approfondimento della sfera psicologica) continuano a rimanere drasticamente in secondo piano. [Luca Calderini]
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