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Sentire le persone

Da Marcofre

C’è un brano nella lettera che Scott Fitzgerald scrive alla moglie Zelda, nel 1940 (lui morirà proprio in quell’anno). Parla del romanzo al quale sta lavorando: “Gli ultimi fuochi” o “L’amore dell’ultimo milionario”. Quando si riferisce ai personaggi di quel romanzo, non li “sente” ancora.

Qui entriamo in un campo minato. Naturalmente non è semplice capire come riuscirci, benché Scott Fitzgerald indichi una strada, che forse è solo la sua:

“Significa mettere insieme centinaia di impressioni ed episodi disparati, per disegnare personalità complete”

 

Una bella sfacchinata, non c’è che dire. Però questo lascia in ombra la vera difficoltà, e non è solo mettere assieme i pezzi del puzzle. Bensì fare in mondo che il “disegno” finale sia vivo e indipendente. La storia come si sa, deve camminare e ci può riuscire solo è viva.

Perché è importante sentirli è evidente anche ai tralicci dell’alta tensione: il lettore è fatto di carne e sangue, e pure tutti noi anche se non lettori, abbiamo questi ingredienti. Dobbiamo per forza agire in modo che la storia sfoderi quelle caratteristiche.

Non ci sono regole, ma solo qualche pallido indizio. Per esempio, Simenon sfogliava l’elenco telefonico per trovare i cognomi per i suoi personaggi. Poi passava intere giornate a pensarci su. Imparava a conoscerli, ma non le persone di quei nomi: i suoi personaggi, certo. Alla fine quando si sedeva alla scrivania e prendeva in mano la matita, era quasi facile.

Riusciva a scrivere con una velocità sbalorditiva ma solo perché aveva già assemblato tutto. Conosceva a menadito quello che pensavano, e come pensavano, e anche il modo di parlare dei suoi personaggi.

Se conosci bene la materia che tratti (il personaggio), riesci a procedere spedito; non che sia importante la velocità. Però è essenziale quando si scrive un romanzo, avere stretto un profondo legame con le creature che si muovono sulla pagina. Per evitare errori grossolani, incertezze, e dover magari riscrivere dall’inizio tutto perché non si è badato a certi dettagli.

Non è detto che la scelta di un certo cognome agevoli la conoscenza del personaggio. Però aiuta. È come una sorta di calamita. Quando trovi quello che ti serve, l’essere indistinto che bivacca nella tua stanza assume dei connotati più precisi. A volte, può accadere che non sia nemmeno necessario un nome. Può essere il giovane, l’uomo o la ragazza. A dimostrazione che non ci sono regole perché ogni storia è una cosa a sé. Ha sue regole, e funziona in un modo preciso, e non in un altro.

È evidente che Emma Bovary doveva avere quel nome, e non un altro. Come trovarlo non si sa, come quando accade lo si riconosce al volo: è quello e non altro.
Dominique Bovary? Per tutti i diavoli, no!

Ma al di là della scelta del nome e cognome, pure importante, la sfida è sempre e solo una: riuscire a rendere concreto un personaggio. Se torniamo per un attimo all’affermazione di Scott Fitzgerald: il personaggio vive se alla fine riusciamo a costruire un meccanismo funzionante. Non basta avere tutti i pezzi: bisogna metterli assieme con l’obiettivo di portare da qualche parte il lettore.

Il problema di certe narrazioni è che se gli autori (e i loro personaggi) uscissero dalla televisione, e si facessero un giro al centro commerciale, ne trarrebbero beneficio entrambi. L’occhio vuole la sua parte, anche durante la lettura; ma non è televisione. È proprio un’altra faccenda.

Se vuoi scrivere hai bisogno di meno televisione, e più riflessione.


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