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Jimmy Wang Yu è uno dei più grandi nomi del cinema di Hong Kong degli anni d’oro, stella della Shaw Brothers, recentemente tornato a recitare dopo una pausa di quasi vent’anni, viene colpito da un ictus poco prima delle riprese di Soul, e la difficoltà nell’espressione facciale diventa forse arma aggiunta nella resa finale di un personaggio meraviglioso, terribile nella sua fermezza orientale ma immenso nel significato dietro i gesti con cui salvaguarda ciò che rimane dopo il collasso fulmineo e brutale della propria famiglia. Vecchio solitario, abita ai confini del mondo in boschi fitti e ripidi che dipingono scenari di immacolata bellezza, cura le sue orchidee fino a quando non riceve la visita del figlio, Ah-Chuan, vittima di un’improvvisa ricaduta fisica e psicologica che sembra averlo trasformato in un’altra persona.
Chung Mong-hong non spiegherà mai cosa è realmente successo ad Ah-Chuan, Soul è un film cerebrale e complesso dove non vengono fornite risposte ma si lascia molto all’interpretazione, senza che questa diventi espediente necessario per poter apprezzare un’opera sfaccettata e difficile, ricca di suggestione e di cambi di stile, che dice tuttavia moltissimo attraverso immagini di grande potenza e silenzi apocalittici. C’è un bel peregrinare horror, in questo film, si potrebbe parlare di possessioni demoniache che accentuano un suo carattere soprannaturale, oppure di follia omicida che in molti segmenti pare inquadrarlo in uno slasher sporco e allucinante, di certo rimangono due caratteri a primeggiare in un tour de force alieno e disorientante: la violenza, molto cruda e realistica, che spiazza sia per scelta visiva che per uso e consumo dei personaggi che passano per la casa del vecchio Wang, e un particolare uso del grottesco, ben visibile in protagonisti dal forte accento ironico (l’ingenuità del poliziotto Piccolo Wu su tutte) e in improvvisi sprazzi di humor che stemperano la pesante e ricercatissima atmosfera (il sogno di Vecchio Wang sull’auto, il primo incontro con il poliziotto). Ne esce qualcosa di indefinibile e strambo ma raffinato tanto nelle intenzioni quanto nella cura per amalgamare aspetti così contrastanti: ci saranno sbavature nei dialoghi, che non trovano mai un buon equilibrio e paiono spesso sbrigativi o poco attenti, ma d’altro canto c’è molta, molta tecnica nella regia di Chung – a volte appare eccessivo il continuo uso di fade-in e fade-out o le botte di bianchi e neri con cui spezza la narrazione, ma ogni inquadratura è scelta e pensata per sottolineare stati d’animo, sciogliere la tensione o accrescerla a dismisura (l’infinita, bellissima soggettiva per l’uso della fionda, o i primi piani sulla pulitura dei pesci), alternando lunghi momenti di stasi silenziosa a esplosioni di violenza scioccante e brutale con cui costruire un bel puzzle che si compone lentamente pur lasciando, volutamente e con gusto, parecchi buchi nella psiche del gelido Ah-Chuan, inespressivo, glaciale, primitivo, mosso apparentemente soltanto dal male più puro.
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