La disoccupazione giovanile ha raggiunto, nel nostro Paese, livelli allarmanti: secondo l'Istat, il 43% degli italiani, compresi tra i 15 ed i 29 anni, non lavora e, tra questi, ben il 24% sono NEET (peggio di noi, in Europa, fanno solo Grecia e Bulgaria). Inoltre, ben 6 disoccupati su 10 sono degli under 35.
Poveri ragazzi italiani, insomma: meno male, però, che c'è la famiglia d'origine, come ancora di salvezza…oppure no? Perchè neanche per i nostri genitori la situazione è tutta rose e fiori, anzi. Secondo il Censis, infatti, dal 2008, anno di inizio ufficiale della crisi, il tasso di disoccupazione tra gli over 50 è cresciuto del 146% e solo un quarto degli ultracinquantenni ha ancora un posto di lavoro: gli altri sono disoccupati, cassintegrati, esodati e, pochi fortunati ormai, prepensionati.
Nel frattempo, l'economia crolla o, nel migliore dei casi, cresce dello "zero virgola un niente per cento"; il programma Garanzia Giovani, già ai nastri di partenza, si annuncia come l'ennesimo flop all'italiana; l'esodo, verso l'estero, delle imprese italiane e dei nostri migliori giovani (negli ultimi 5 anni, i cervelli in fuga sono stati più di 94 mila) continua inarrestabile; i soldi per gli ammortizzatori sociali sono agli sgoccioli.
Ma Governo e Parlamento sembra che abbiano cose più importanti da fare (legge elettorale e riforma del Senato), mentre il Paese va in pezzi, dimenticandosi – colpevolmente? A questo punto comincio a pensare di sì – di dare seguito alla riforma del lavoro iniziata con il Jobs Act, cosa che, tra parentesi, non è, ugualmente, sufficiente a rimetterci in carreggiata.
Le precedenti – fallimentari – riforme (Biagi, Fornero e tutte le leggi e leggine di contorno) hanno ampiamente dimostrato che intervenire sul mercato del lavoro è totalmente inutile se, prima, non si ripensano completamente i nostri settori industriali e la pressione fiscale e soluzioni "geniali", come gli 80 euro, si sono rivelati un palliativo.
La partenza zoppa della Garanzia Giovani ne è la dimostrazione. Oltre 100 mila domande, per poco più di 5 mila posti di lavoro: le imprese italiane sono ancora troppo fragili, troppo poco disposte a rischiare, troppo schiacciate da tasse e burocrazia e per nulla supportate da politiche industriali sensate.
La stessa vicenda Fiat (la decisione di spostare la residenza fiscale della società, nella più vantaggiosa Olanda) è la dimostrazione della fallimentare politica economica, seguita fino ad oggi: lasciar fare il mercato, da sè, porta al collasso del sistema economico. Perchè il mercato non cerca equilibrio, nè sviluppo del territorio, nè occupazione: il mercato cerca solo il profitto.
Spetta allo Stato tracciare delle linee guida (piano industriale), entro cui possono muoversi i privati, allo scopo di favorire i settori più innovativi e a più alto tasso di occupabilità; di garantire una più equa redistribuzione del reddito; di favorire una più ampia scolarizzazione (sia di base che universitaria), una maggiore selezione meritocratica e una più stretta collaborazione tra formazione e lavoro.
Invece, a scuola si tagliano i fondi e mondo del lavoro e della formazione o non si parlano o, quando lo fanno, usano lingue diverse. Investire nella green economy e nelle sue infinite possibilità? Certo che no, molto meglio mettersi a trivellare nel Mediterraneo (???), in cerca di petrolio. Snellire burocrazia e fare leggi più chiare e trasparenti? Non sia mai, che si tocchi quella zona grigia, dove prosperano le mazzette.
Senza lavoro, quindi, è davvero la fine: ma questo, la politica, lo sa?
Danilo