Giulio Berruti, dalla metà degli anni sessanta fino alla fine del decennio successivo, è stato un prolifico cineasta. Questo è l’unico termine utilizzabile per definire un personaggio che ha ricoperto i ruoli più disparati: montatore, sceneggiatore, aiuto e assistente alla regia, documentarista, produttore e infine regista. Berruti ha incrociato la sua strada con quella di personaggi fondamentali di quella stagione cinematografica: Bruno Corbucci, Alfonso Brescia, Corrado Farina, Mario Amendola, Laura Antonelli, Adolfo Celi, Joe D’Alessandro, Carlo Maietto, Brunello Rondi e Marcello Andrei, tanto per citarne alcuni. La sua carriera, nel cinema, si conclude con il censuratissimo Suor Omicidi nel 1979. Giulio Berruti ha tanto da raccontare…
Iniziamo subito con il fare un po’ d’ordine nella sua filmografia, che ha molte zone d’ombra e punti da chiarire. A me risulta che il suo debutto nel cinema avviene nel 1966, nella veste di sceneggiatore, con il film Albero verde di Giuseppe Rolando. Effettivamente è cosi, e, a prescindere, che cosa la porta nel mondo del cinema?
Non ricordo di che anno sia Albero verde. Comunque, all’epoca lavoravo per una società salesiana editrice chiamata SEI e facevo i filmini didattici che, in pratica, erano delle diapositive messe su pellicola che servivano ad aiutare i professori a spiegare le lezioni. Siamo all’inizio degli anni sessanta. Per cui avevo già un interesse per il canale, il mezzo audiovisivo. Anche se io nasco operaio, operaio nelle materie plastiche. Se adesso respiro cosi è per quegli anni lì, e, prima ancora, venivo dall’Africa.
Dall’Africa? Mi racconti…
Si, io sono un profugo africano. Ho anche scritto un’opera teatrale su questo: si chiama Io ancora mi ricordo. Mio padre era un medico militare e faceva il trasporto sulle navi. Prendeva i soldati feriti in Abissina e in Etiopia e li riportava in Italia, e, poi, accompagnava le nuove truppe di nuovo su territorio africano. Io avevo sei fratelli e una sorella. Nel 1939, quando avevo tre anni, lui capì che qualcosa stava per succedere, che la situazione stava per esplodere e pensò che se avesse portato tutta la famiglia in Africa ci avrebbe salvato. Le cose, poi, insomma…(ride). Posso, però, giustificare il suo ragionamento; aveva un senso in quel momento, poteva essere un pensiero corretto. Quindi partimmo, armi e bagagli, e mio padre chiese il trasferimento al distretto di Ginja. Nel ’41 la zona era già sotto occupazione inglese, e mio padre finì prigioniero in un campo militare in Kenya, dove contrasse la tubercolosi, e noi civili fummo caricati e portati in vari campi profughi. Sono stato un anno e tre mesi lì. Ricordo che i bambini morivano come mosche…come mosche. Le madri impazzivano, letteralmente, impazzivano e le mettevano in queste baracche di lamiera. Forse è per questo che non sono mai riuscito a imparare l’inglese, quell’esperienza mi scioccò moltissimo. Poi, più in là, ci misero sulle navi e tornammo in Italia, e iniziò tutta la guerra di resistenza per noi. Un fratello fu ferito, mia sorella e un altro fratello diventeranno partigiani…e in questa fase ci sarebbe una storia incredibile legata a mia madre. Comunque, nel frattempo, mio padre fece ritorno e morì di tubercolosi nel’53. Noi, quindi, ci siamo tutti messi a lavorare dove potevamo. Tieni presente che eravamo tutti un po’ sbandati…la prigionia in Africa, la guerra, i tedeschi che ti venivano a prendere ogni quattro giorni a casa per mostrarti i partigiani impiccati. Non ne uscivano dei ragazzi propriamente equilibrati. Comunque, ho iniziato come operaio nelle materie plastiche, poi sono diventato capo d’officina, poi in contabilità. Qui arriva la SEI. Io guadagnavo cinquantamila lire al mese e, per arrotondare, facevo le traduzione di libri di religione dal francese. Non conoscevo il francese e quindi con un vocabolario, parola per parola, mi mettevo lì e traducevo tutto, passando così notti intere. La SEI era molto soddisfatta. Mi dissero che addirittura miglioravo lo stile dell’autore, e mi impiegarono, mi chiesero di entrare da loro. Ecco, così iniziai a fare quei filmini didattici di cui si parlava prima.
Come nasce questo Albero verde, e poi, soprattutto, cos’è?
Conobbi Giuseppe Rolando, che aveva iniziato un’attività, che tutt’ora esiste – lui non c’è più, se ne occupa la moglie – che è la Rolfilm di Torino. Io, nell’ambiente, godevo di una certa fama, i miei filmini andavano bene… Rolando, invece, aveva il sogno di diventare regista di cinema. Lavorava per una grossa società italo-svizzera di cuscinetti a sfera, si licenziò e aprì questo stabilimento. Fece un sacco di filmetti sui santi. Io che sono un ateo convinto mi trovai in mezzo a tutti questi santi, ne feci con lui circa sette/otto. In tutto questo mi chiede di scrivere una sceneggiatura tratta da questo Albero verde, che parla di un giovane di Don Bosco. Bosco era famoso per aiutare i giovani di strada a prendere la retta via. Il libro era scritto da un inglese o un americano ed era la storia di un ragazzo cattivo che grazie a Don Bosco diventa buono. Io non avevo mai scritto una sceneggiatura e andai un po’ a naso. Il film non circolò molto, ma fu presentato al Festival di Venezia, che all’epoca aveva una sezione di film per ragazzi.
Il regista Giuseppe Rolando
Quindi, a metà degli anni sessanta, siamo sulla linea di confine che ti divide dal cinema. Quello vero, diciamo. Prima di oltrepassarla, ti chiedo: quale era il tuo rapporto con il grande schermo da spettatore?
Andavo spesso al cinema, anche perché all’epoca non è che ci fossero queste grandi alternative, qualche volta si andava a ballare, ma alla fine il cinema era la meta prediletta il sabato e la domenica. Poi, si andava rigorosamente in gruppo, a prescindere se ad uno piaceva il film o meno. Il cinema era un’esperienza di gruppo, un punto di incontro collettivo. Inizialmente, la mia predilezione era per il western, che tutt’ora difendo. Soprattutto per un ragazzo che ha vissuto la guerra, la favola è il western: i buoni erano buoni, i cattivi erano cattivi, c’era la fanciulla indifesa, il cattivo, volendo, è un po’ come un orco… Insomma, ci sono tutti gli elementi tipici della favola, e per uno che ha visto i morti ammazzati per strada è un’occasione di catarsi, di trasformare quella memoria, di mutarla. Un giorno ero rimasto solo e non sapevo cosa fare. Era tristissimo allora rimanere da solo. Adesso non so come sia per un giovane, ma all’epoca era tremendo non stare in compagnia. Mi infilo in una sala, preso dalla disperazione, e c’erano tre persone dentro. Stavano facendo il film di Bergman, Il settimo sigillo, e resto scioccato. In quei tempi si poteva fare, rimango seduto e lo vedo due volte. Rimango folgorato da come Bergman racconta questa storia, che poi si conosceva. Non è sua l’idea di un uomo che gioca la sua vita con la morte. Questo inizio in cui Bergman utilizza sette totali. Non si potrebbe in realtà, è un errore filmico…ti parlo di un periodo in cui la grammatica aveva un senso. Da quel momento inizio non più a frequentare i cinema di periferia, dove abitavo, ma ad andare al Teatro Romano, che a Torino sta al centro, in una galleria molto bella vicino a Piazza Castello, e che si era convertito insieme a me, perché prima faceva avanspettacolo. Capendo che l’avanspettacolo stava per morire, si tramutò in un cinema che faceva un film più difficile dell’altro (ride). Contemporaneamente iniziai ad appassionarmi al teatro, ma, non avendo soldi, frequentavo soprattutto i centri sociali, i gruppi studenteschi, i dopo-lavoro della Fiat che organizzavano vari eventi, e pian piano, prima ancora di approdare alla SEI, inizio anche a organizzare, e quindi a scrivere, dei piccoli spettacoli, a scrivere le riviste.
Lei ha fatto un giusto distinguo tra cinema “di periferia” e cinema d’autore. Ma non pensa che noi abbiamo preso, senza comprenderla, la lezione del cahiers du cinema, applicandola al nostro cinema nel peggiore dei modi? Per cui a dettare l’autorialità della pellicola non è il regista ma, in primis, il tema, cosi marchiando a prescindere qualsiasi film cosiddetto di genere, perché tra i suoi scopi primari c’è quello dell’intrattenimento?
Questo è stato uno dei grandi mali del nostro cinema. Vedi, io, e come me ce ne stanno tantissimi, ho iniziato a fare cinema non per diventare Fellini, non per diventare un grande autore, un maestro del montaggio. Io e molti come me volevamo solo lavorare, comunicare con questo mezzo, vivere facendo questo mestiere. Artigiani, nel senso di persone capaci di fare una cosa con professionalità. Ci piaceva il mezzo e volevamo lavorare con esso, per cui preferivamo fare sei film di genere piuttosto che tentare di fare chissà quale capolavoro. Finire un film e farne un altro. Poi, arriva I pugni in tasca. Questo ragazzo poco più che ventenne (Marco Belocchio n.d.r)… la sai la storia, no? Eh, inizialmente non riesce a trovare una distribuzione, e poi diventa un fenomeno culturale. Ecco, dopo il successo di questo film, se volevi passare alla regia certi produttori ti chiedevano quale era il tuo messaggio, dovevi avere un messaggio. C’era questo nuovo orientamento in certi ambienti. Il tuo film doveva contenere un messaggio, o una denuncia se preferisci: contro la mafia, il sistema sanitario, il banditismo, le realtà di borgata, la violenza carnale. La gente come me se ne fotteva altamente dei messaggi, tant’è che il mio film d’esordio è stata una commedia, anche di bassa lega se vogliamo. Il problema di certa critica, e se vogliamo di alcuni produttori, è stato quello di correre dietro al messaggio, di dare valore a un film solo quando c’è un messaggio. Perdendo per strada una visione e una capacità artigianale unica al mondo. Eravamo capaci di costruire un’antica Roma con la carta pesta, in maniera sublime, con gusto.
Non pensa che ci sia stata anche una politicizzazione legata a questa rincorsa al messaggio, come l’ha definita lei? L’integrazione del messaggio veniva vista come indicativo di un credo, una appartenenza anche politica. Una cieca suddivisione: con messaggio è di sinistra, senza è di destra?
Un regista che faceva film con un messaggio, messaggio che doveva essere sempre fortemente politico e di sinistra, era un autore, e, in quanto tale, era anche tutelato in un certo senso. Tutti gli altri erano artigiani…artigiani di bassa lega. La questione di destra non rientrava tanto nel discorso. Erano film e registi semplicemente di serie B. Io ho lavorato con Bruno Corbucci, come aiuto, su un film con Franco e Ciccio, I due pompieri (1968), e lui disse una cosa che non scorderò mai. Bruno era una persona deliziosa, divertente, ma lavorava poco sul set, arrivava sempre con un’ora di ritardo (ride). Tant’è che nell’attesa facevo sempre mettere giù il carello, il che significava bruciare almeno un’ora. Per cui, quando il direttore di produzione mi diceva “Ma Bruno ancora non c’è.” io dicevo “Mi ha detto di fare il carello.” e cosi salvavo la frittata. Arrivava sul set, mentre giravamo al mare, si ficcava in una cabina, si metteva in costume e si buttava in acqua. La balena bianca diceva lui… era molto grasso. Mi faceva: “Berrù…faje vede chi sei!” e io andavo a girare la scena. Questo era il sistema mattutino di Corbucci. Una di queste mattine, uscito dall’acqua, si mise a leggere un giornale in cui recensivano un suo film. Tieni presente che Bruno faceva qualcosa come tre film all’anno. Questa fu l’unica volta che lo vidi alterarsi. Avevano distrutto un suo film definendolo di serie B. Beh, lui iniziò a sventolare il giornale davanti a tutta la troupe. “Ma quale serie B! Noi semo la nazionale del cinema italiano! Perché senza de noi Fellini non farebbe un cazzo!”. Ecco, questo era il principio: i critici dicevano ‘serie B’ e la cosiddetta serie B diceva “noi siamo la nazionale”, perché consentiva ai produttori di poter fare film impegnati che non incassavano. Quindi, non era tanto destra o sinistra quanto: sei di sinistra? Allora sei intelligente. Tutto il resto è monnezza.
Tra Albero verde e I due pompieri passano circa due anni. Cosa succede in questo lasso di tempo e come avviene il salto da sceneggiatore ad aiuto regista?
Ero aiuto regista anche su Albero verde, comunque, cosa succede…allora. A Torino il cinema non si poteva fare, al di là di documentari, cortometraggi, e, con tutto il bene che volevo a Rolando, avevo capito che non sarei riuscito ad uscire rimanendo lì, per cui decido di scendere a Roma. Era diverso all’epoca eh. Con cinquantamila lire in tasca e con la mia cinquecento scendo. I primi tempi dormo in macchina. Avevo lavorato a Torino con un vecchio direttore di produzione che si chiamava Maggiorino Canonica, che aveva fatto La terra trema di Rossellini per capirci, e, in particolare, tutti i film di un produttore molto importante di nome Luigi Rovere. Quindi, chiamo Canonica chiedendo il permesso di contattarlo. Tieni presente che nel frattempo avevo chiamato tutti, ma non ero riuscito a trovare lavoro. Tutti mi dicevano: “Bravo, bravo. Continua cosi.”, ma non si muoveva nulla. Non avevo neanche un indirizzo da dargli. Vado da Rovere, vecchio piemontese, e gli dico: “Fammi lavorare”. Lui mi guarda e dice: “Ti faccio lavorare perché stai con la schiena dritta.” (ride) I piemontesi son strani eh. Chiama Mario Amendola, che stava in preparazione con un film, ed inizio a lavorare. Il film si chiama Dai nemici mi guardo io!
Quindi il suo primo film, sceso a Roma, è questo di Amendola, non il film di Corbucci.
Questi due li ho fatti uno appresso all’altro, e il primo è stato questo qui di Amendola, che, se ricordo bene, girammo verso la fine di quell’anno.
Ha fatto un ritratto colorito di Corbucci. Amendola, invece, che tipo era?
Bassino, bruttino e con il tormento delle donne.
In che senso ‘il tormento’?
“Giulio famme conosce na donna!” Ecco. Un giorno feci l’errore di presentargliene una. “Mario ti faccio conoscere una bella ragazza” “Ma con me…?” Feci l’errore tremendo di rispondere: “Va con tutti.” “Ecco. Va con tutti!” Questa cosa lo mise in crisi. Era tormentato dal pensiero di essere brutto, di non piacere, ma era incredibilmente sensibile. Ce ne era tanta di gente cosi, anche Corbucci, persone apparentemente rozze, ma dotate di uno sguardo speciale, percettivo. Poi Amendola un giorno mi chiese cosa volevo fare da grande, e io risposi: “Non lo so”. “Chi risponde cosi non farà mai la carriera che ho fatto io, ma molto migliore.” Mi prese a scrivere con lui, da negro diciamo, per due lire. Scrivevo delle sequenza, delle scene. Due o tre ne ho fatti. Fu lui, tra l’altro, a presentarmi Bruno Corbucci.
Quindi lei entra dalla porta principale. Aiuto di Amendola e Corbucci…
Eh, ma poco dopo subentrò un po’ di crisi. Io con Corbucci pensavo di essermi sistemato. Praticamente gli facevo il film… Che succede, che arriva il figlio di Macario (Alberto n.d.r), con cui Bruno aveva spesso lavorato, che voleva fare il regista. Per cui, fui messo da parte, e, vabbè, in sostanza mi ritrovai al punto di partenza. Preso dalla disperazione decisi di contattare quello che all’epoca era il più grosso aiuto in attività, che si chiamava Stefano Rolla, quello che è morto a Nassiriya. Gli scrivo chiedendo di passarmi, magari, dei film che lui rifiutava. Incredibilmente lui mi rispose e andai a trovarlo a casa, dove abitava con la sua prima moglie. “Sai parlare il francese?” mi chiese. A forza di fare quelle traduzioni il francese l’avevo imparato. Poi io con Rolando, a Torino, avevo fatto dei documentari per la linea Costa Crociera, dove conobbi una ragazza francese che divenne mia moglie e la madre della mia prima figlia. Insomma, Rolla mi passò un film di Bernard Borderie, famosissimo per la serie di Angelique. Il film, questo nel’69, si chiamava Catherine (la quota italiana era gestita da Frano Clementi n.d.r), e su quel set imparai veramente a fare l’aiuto regista. Sui set italiani, al di là di quei momenti in cui Corbucci mi diceva “Berrù faje vede chi sei”, l’aiuto era quasi un tutto fare. L’aiuto francese era davvero una figura di grande importanza e rispetto. Fui costretto a fare un corso accelerato appena capii che le cose erano cambiate. Poi quello era un film con duecento comparse, girato nella campagna viterbese, una cosa impegnativa. Io mi firmai Julien Berruti. (ride)
Ricordi particolari rispetto al cast?
Di quel periodo lì, ricordo Robert Hossein, ma con lui feci un western…quello su Roy Bean. (All’Ovest di Sacramento di Jean Girault n.d.r)
Ricapitoliamo: il film di Amendola, poi quello di Corbucci, e poi queste due produzioni italo-francesi. A questo punto lei partecipa a quello che tutt’ora è un cult molto apprezzato: Hanno cambiato faccia (1971) di Corrado Farina. Giusto?
In quel periodo c’era una grande immigrazione di torinesi che scendevano a Roma, che una volta scesi chiedevano aiuto ad un torinese che già si era piazzato. Scendere all’epoca non era un scherzo, erano dieci ore di macchina, dato che non c’era autostrada fino a Bologna. Corrado, che è, appunto, torinese, scese giù e mi contattò.
Ma vi conoscevate già?
No, no. Ma così si faceva. Tramite contatti scovavi qualche torinese che, chi più chi meno, si era già affermato nel cinema, e ti facevi dare una mano. Ad esempio, l’attore Flavio Bucci: quando scese, fui io a fargli fare il suo primo film, che era Le altre. Comunque, Corrado aveva lavorato molto nella pubblicità con Armando Testa, aveva fatto caroselli, e desiderava, a quel punto, fare cinema. Aveva una sceneggiatura, una bella storia, e mi chiese se potevo dargli una mano sia a trovare gli attori che a cercare una distribuzione. Gli procurai una piccola distribuzione con un amico, Carol Chamblan. Poi, non so per quale ragione precisa, godevo di molta stima presso gli attori, per cui potevo andare da un nome come Adolfo Celi e fargli un discorso. “Non ci sta una lira…” Il film l’abbiamo fatto con venti milioni. “Ma facciamo finta che ti abbiamo pagato bene. Ti ospito a I principi di Piemonte, il più bell’albergo di Torino, proprio super-lusso, ti do una macchina con autista, e così nessuno saprà che ti abbiamo dato due lire.” Gli attori in gamba, e, tornando al discorso di prima, quelle persone che facevano cinema per amore e basta – e Celi era uno di questi – davanti ad un discorso così ti dicevano di si. Per cui trovo lui, trovo Giuliano Esperanti, con cui avevo lavorato (sul western All’Ovest di Sacramento n.d.r); trovo, dato che avevamo fatto un paio di documentari insieme in ambito sportivo, il direttore della fotografia Aiace Parolin. Altro personaggio mosso da vero amore per il cinema, il quale venne perché il film gli piaceva. Tant’è che i miei non li fece. (ride) Chiedemmo poi alla Fiat la possibilità di avere delle cinquecento bianche e le macchine di lusso, che poi ci diedero. Anche perché avrai senza dubbio capito che il film si ispira ad Agnelli…
Lei su quel film, oltre ad aiutare nell’organizzazione, cosa ha fatto?
L’aiuto regista, il montatore e lo sceneggiatore.
Cosa aveva, esattamente, per le mani Farina quando approdò a Roma? Un soggetto, un primo trattamento?
Si, diciamo un primo trattamento. Abbiamo lavorato molto bene insieme. Poi, lui è un cattolico, io sono ateo, io non ero comunista, ma ero molto di sinistra, lui è un liberale illuminato, ma non va oltre, per cui, mischiando pensieri e formazioni diverse, siamo riusciti a costruire delle belle sequenze.
Lei, arrivato all’inizi degli anni settanta, aveva ricoperto diversi ruoli: aiuto, sceneggiatore, montatore, aveva fatto documentari… Lei però cosa si reputava? Sul biglietto da visita cosa avrebbe messo?
Futuro regista. Accumulavo esperienze e film, comunque, sempre con gli occhi sulla regia: lì volevo arrivare. Non importava come, ma lì dovevo arrivare. Nell’attesa facevo tutto, se mi avessero chiamato a fare l’elettricista, e il film mi fosse piaciuto, sarei andato, senza problemi. Quindi, sul biglietto da visita, al limite, c’avrei potuto scrivere ‘artigiano di cinema’. Ad esempio, nel periodo in cui montavo tante cose ero alla Fono Roma, vicino a dove lavorava Kim Arcalli, il grande montatore. Ora, non voglio vantarmi, ci mancherebbe altro, ma ecco i due estremi: c’ero io che ero noto per lavorare sui film impossibili e poi Arcalli, che era il re, e ci spiavamo a vicenda. Patrizia, mia moglie, prima di lavorare con me, aveva lavorato con lui, e mi diceva quali erano i suoi metodi, e un mio assistente andò a lavorare con lui e fece lo stesso. Io rappresentavo una curiosità, perché più il film era brutto e più era facile che finisse da me. Il film è brutto? Il regista è un cane? Diamolo a Berruti. Questa etichetta non sono mai riuscito a togliermela.
Da questo punto di vista non ci sono stati problemi con Hanno cambiato faccia…
No, no, Corrado aveva un’ottima grammatica di base, datagli dalla pubblicità. Se ha un difetto è quello di essere un po’ chiuso. Se non veniva riconosciuto, invece di arrabbiarsi, Corradi si adombrava. Ma, al di là di questo, niente da ridire. Quel film l’ho montato con una mano sola e un occhio chiuso. Con il suo secondo film ho avuto problemi…
Adesso ci arriviamo. L’ultima domanda su questo film. In quanto tempo fu girato?
Circa quattro settimane. Poi, quel film è stato divertente perché, innanzitutto, è stato fatto tutto a Torino, per cui voleva dire tornare a casa, e, poi, significava coinvolgere tutti gli amici miei e di Corrado nella realizzazione. Lui non dico facesse parte dell’alta società, ma della Torino bene; io venivo da un passato da operaio. Coinvolgemmo tutti. L’autista di Celi era mio nipote ad esempio, che poi appare nel film come attore: è quello che viene sorpreso nel cesso che legge. Tutte le ragazze con le tette al vento sono mie ex fiamme, che per reperirle ho dovuto fare le vasche. Torino è molto provinciale, un provincialismo regale, ma comunque provinciale, e quando volevi incontrare amici, bruciare delle ore serali, ti mettevi a fare le vasche, cioè andavi su e giù lungo i portici di Via Roma, la domenica mattina. Ogni tanto beccavo qualche ragazza che conoscevo. “Oh Giulio, ti pensavo a Roma.” Che vuol dire che non ti pensavano manco per il cavolo. Gli raccontavo qualche frescaccia. “Vuoi fare cinema? Sarai bella per sempre.” E venivano a lavorare gratis.
Il film non andò benissimo al botteghino.
No, fu contestato dalla distribuzione. Il motivo non l’ho mai capito. Personalmente, il sospetto è che la colpa sia di Chamblan, che fece l’esecutivo. Il capitale, i venti milioni, li trovò Corrado, ma pretendeva, giustamente, che ci fosse da subito una distribuzione. Il sospetto è che Chamblan, pur di fare il film, trovò una piccola distribuzione regionale, a Roma, dicendogli: “Firmate il contratto, tanto poi potete sempre contestarlo.” Questo è un sospetto che ho sempre avuto, che lui ci abbia un po’ bidonato.
La considerazione più ovvia è che il ponte tra Hanno cambiato faccia e il suo film successivo, La mano lunga del padrino (1972), sia Adolfo Celi, dato che è il protagonista di entrambi.
No, è stato Chamblan. Lui era un piccolo produttore e distributore con cui avevo fatto una serie di documentari didattici sportivi, in collaborazione con il Coni. Da Chamblan arrivò Nardo Bonomi, che voleva fare cinema, anche lui aveva dei soldi da investire, un copione che lo entusiasmava. Io gli procurai Adolfo Celi di nuovo. Qui c’erano soldi, per cui diciamo che gli ho ricambiato il favore che mi aveva fatto sul film di Farina. Questo c’era molto nel cinema, senza dirselo apertamente.
Peter Lee Lawrence lo portò lei?
No, quella fu la produzione. Io, però, fui il gancio per portare la bellissima attrice protagonista, che avevo conosciuto ad una festa, mannaggia… come si chiama… (Erika Blanc n.d.r)
Anche qui lei è sceneggiatore e montatore, ed anche in questo caso il film non ebbe un buon esito d’incasso. Lei cosa pensa del film?
La questione è questa: non ci si improvvisa regista, cosa che fece Bonomi, parlandone da vivo, perché credo che anche lui sia venuto a mancare … Ma, se lo si fa, bisogna avere la coscienza di esserlo, un regista improvvisato, e, quindi, avere l’umiltà di farsi guidare. Bonomi addirittura arrivò a dire che io cercavo di prevaricarlo. Si è visto subito, comunque, che il film non andava, la sceneggiatura era debole e Bonomi non sapeva girare. Io, da montatore, sono un po’ fissato con i raccordi, anche perché quelli abbiamo, e con lui erano tutti sbagliati…
Cosa ricorda del protagonista Lawrence, che è morto poco dopo?
Persona gentilissima, dolcissima, che giocava molto con la sua somiglianza con James Dean. Con lui mi sono trovato benissimo, e una cosa la ricordo molto bene di lui. Mi diede un pacco di cartoline, poco prima di morire, che io dovevo continuare a spedire per conto suo, così lo avrebbero creduto ancora vivo, e la moglie avrebbe potuto riscuotere i soldi che dovevano a lui. Peter era un ragazzo che prometteva molto, ed è morto proprio nel momento in cui stava cercando di fare un salto di qualità. Di una simpatia estrema, e sapeva bene che stava per morire.
A proposito del regista Bonomi. Lei sa che fine a fatto?
Fece un altro film, che non uscì mai. Dovevo fare l’aiuto anche lì, ma stavo lavorando su qualcos’altro e non lo potei fare. Passai la palla a Corrado Farina.
Non si ricorda il titolo?
No, recentemente anche un’altra persona mi ha chiesto di questo film. Il titolo non lo ricordo, ma ti posso dire che era con Erna Schurer. Non penso neanche che l’abbiano finito, o comunque montato, e Bonomi è tornato nel Chianti, doveva avere terra e faceva un ottimo vino.
Con Hanno cambiato faccia lei apre un vero e proprio sodalizio con Farina. In questo periodo monta anche I dialoghi dell’acciaio (1972). Un documentario.
Si, di quello ho fatto anche l’organizzatore e l’esecutivo per conto della RPR.
…e poi arriva Baba Yaga.
Ecco, con quel film io non c’entro niente con il cast. Su Baba Yaga ho fatto l’aiuto e il montatore. Su quel film c’è tanto da dire…
Intervista a cura di Eugenio Ercolani (Morlupo-2013)