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È la fine di una vita e l’inizio della storia.
Partendo dal capolinea, il viaggio si muove obbligatoriamente al contrario in modo che la regressione si trasformi in propensione per andare avanti, e la regista francese Agnès Varda classe 1928 – doppiata nell’introduzione con un accento transalpino che fa quasi tenerezza per l’ingenuità della cosa – decide di cominciare in media res, eliminando la biografia di Mona che apparirà soltanto in qualche brandello successivo, preferendo immaginarla come una ninfa che esce dall’acqua per inoltrarsi nella gelida pianura. Si ha la prima constatazione del titolo, questa giovane ragazza non possiede una casa. La casa a livello generale è un sottile leit-motiv dell’opera: molti degli incontri che Mona farà tangono questioni riguardanti un’abitazione, possiamo citare come esempi l’eredità della vecchia signora (probabilmente la sottotrama più riuscita del film) o l’immigrato tunisino che non potrà tenerla con sé perché i colleghi non vogliono una donna in casa. D’altronde un tetto trasmette facilmente le idee di calore, solidità, riparo, tutti elementi che la protagonista non ha, o che forse riesce anche ad avere ma solo per brevi istanti.
E questa impossibilità si deve ai comportamenti di Mona stessa.Qui si accerta la seconda parte del titolo. La legge non ha aspetti legali (anche se le conclusioni sbrigative dei poliziotti e il furto da parte del fidanzato della badante aprono ulteriori spiragli) bensì etici. Mona, più semplicemente, non ha alcuna regola a cui sottostare, e vive in una libertà prossima allo stato brado che appare la condizione calzante della sua bestialità (gli strappi al pane raffermo, i rapporti occasionali) o più in generale ad una condizione di apatia che si riversa anche su chi tenta di darle una mano, tanto che, come le dirà il pastore-filosofo, la sua libertà è una prigione di solitudine. Errare, ma non aberrare.
Si sa che non tutte le ciambelle riescono col buco, e allora se il vagabondaggio di Mona e la sua noncuranza verso se stessa e chi la circonda sono elementi che ben si evidenziano dal contesto, è doveroso ricordare che questo è un film di fiction e come tale ci si aspetterebbe che vi sia un intreccio, una sequenzialità, un concatenamento o quel che volete all’interno della storia, invece il pericolo aneddotico fa continuamente capolino, ed anche se alla fine Varda tira per sommi capi le fila della vicenda, alcuni nodi non vengono al pettine, magari anche ininfluenti (il pastore e il tunisino) e superflui (la docente universitaria), ma che messi lì appesantiscono il minutaggio e sembrano quasi corpi estranei dal resto della pellicola. Leggermente fastidiosa la tendenza a far parlare in camera gli attori, senza infamia senza lode i molteplici carrelli orizzontali.
Leone d’Oro a Venezia 1985.
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