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“Seppellite Cesare”

Creato il 13 settembre 2010 da Casarrubea
“Seppellite Cesare”

La verità sul bandito Giuliano

Sicilia. marzo 1950. Strane voci circolano per l’isola. Riguardano un uomo che ha fatto parlare di sè in tutto il mondo. Si chiama Salvatore Giuliano. Di professione capo di una banda di terroristi neri. Alcuni dicono che è fuggito in Tunisia, nel dicembre 1948, su una imbarcazione; altri che sia andato nella Spagna franchista per arruolare un esercito di liberazione della Sicilia; altri ancora che il governo italiano ha organizzato la sua fuga nel Nuovo Mondo, dove il bandito è stato concepito nel 1922 (Gavin Maxwell, Dagli amici mi guardi Iddio, Milano, Feltrinelli, 1957, p. 147).

Sta di fatto che Antonino Terranova, alias “Cacaova” e Frank Mannino alias “Ciccio Lampo”, membri della banda, scappano a Tunisi. Hanno un amico e si imbarcano nel 1948 sul peschereccio Rosita, con l’aiuto ddell’ispettore Ciro Verdiani. E’ il 7 dicembre 1948. Nell’agosto 1947 alcuni membri autorevoli della banda sono espatriati in America con passaporti falsi. Sono Pasquale Sciortino, inteso “Pino”, Francesco Barone, alias Baruneddu, e qualche altro. Tutti saranno riacciuffati e portati di nuovo in terra natìa.

Secondo alcuni articoli de l’Unità dell’estate 1947 – scrive Mike Stern in No innocence abroad negando il fatto, (Random House, New York, 1953, pp. 63-113) – il compito di Sciortino è di mantenere i contatti tra gli uomini del giornalista americano e la banda Giuliano in Sicilia. La notizia è giudicata erronea, ma sta di fatto che Sciortino sarà catturato dall’Fbi nel Texas, nel settembre 1952, dove si è arruolato nella Usaf (United States Air Force). Terranova, durante il processo di Viterbo nel 1951, spiega meglio le cose: “Giuliano mi disse che gli istigatori del massacro di Portella si erano rifiutati di osservare il patto [la promessa di libertà]. E aggiunge: “Dobbiamo far pressione su questi signori perchè mantengano la parola: ‘Vai a Castellammare del Golfo e sequestra Mattarella [deputato siciliano della Dc] con tutta la sua famiglia”.

Dunque, sono due i fatti che emergono. Il primo è che, dopo le stragi della primavera 1947, la promessa di libertà, apparentemente, è mantenuta solo per alcuni uomini della banda, non per tutti. Quelli che, diciamo, eludono i controlli, la fanno in barba alla legge. Il secondo è che il mancato rispetto dei patti spinge Giuliano a colpire in un’unica direzione: i capi della Democrazia cristiana. Liberare Giuliano non è una scelta di scarso rilievo.  Egli è il capo, il depositario di segreti. Custodisce il diario di bordo dove stanno scritti nomi illustri: menti politiche e mandanti. Eliminarlo sarebbe molto più comodo e sbrigativo che mantenerlo in vita. Ma non lo si può fare andare via come una mina vagante. Da vivo infatti ha è  autore di tragedie e lutti incalcolabili. Il  bandito li provoca dopo vari tentativi di persuasione della sua controparte. Cioè lo Stato. Pubblica, ad esempio, sul Giornale di Sicilia un ultimatum al governo: “Se entro il 21 aprile [1949] non verrà data una risposta, attaccherò le forze dell’ordine per uscire da questa tormentata situazione”.

Leggiamo in La verità sul bandito Giuliano (suppl. al n. 24 di Propaganda del Pci, 1949): “Giuliano ha una sua logica. Egli non si sa spiegare come mai coloro che si sono serviti di lui per massacrare i contadini a Portella della Ginestra e per organizzare le stragi del 22 giugno [1947], coloro che gli hanno indicato i cittadini da sequestrare e da ricattare per dividere insieme i proventi, coloro che gli hanno fatto eleggere il 18 aprile [1948], ora se la prendono con lui e gli lanciano contro la polizia. La prima lettera di Giuliano al governo è infatti una lettera di richiamo ai precisi impegni presi dalle forze politiche al potere nei riguardi del bandito: ‘Onorevoli – scrive Giuliano – queste donne che si trovano maltrattate in carcere [il riferimento è alla madre e alle sorelle] sappiate che hanno votato le vostre liste perchè speravano in un senso di giustizia e soprattutto nelle vostre promesse. Nelle nostre zone non si è votato che per voi e così noi abbiamo mantenuto le nostre promesse, adesso mantenete le vostre’ “.

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La verità sul bandito Giuliano

Ma gli onorevoli fanno orecchio da mercante. E, come abbiamo già visto in un altro post di questo blog, Giuliano alza il tiro. Prima l’imboscata di Portella della Paglia, poi Bellolampo, nell’agosto 1949. Tredici agenti e carabinieri pagano con la vita i giochi di potere dei signori che siedono a Roma e hanno i loro accoliti in Sicilia. Il 18 settembre, sulla strada per Menfi (Trapani) i banditi  fermano e rapinano due deputati democristiani: Addonnino e Borsellino. Il primo, come scrive il quotidiano romano Il Paese, ha presentato un’interpellanza al Parlamento prendendo le difese dei banditi, il secondo avrebbe detto: “Io ho difeso gratuitamente i Fratelli d’Italia (due noti banditi di Menfi)”. Come a dire: “Noi abbiamo mantenuto la parola data. Non prendertela con noi”.

Altra vittima dell’aggressione è l’avvocato Ravidà, amministratore dei feudi del principe Pignatelli d’Aragona. Verdiani continua a muoversi dietro le quinte. Il ministro degli Interni Mario Scelba gioca le sue ultime pedine. Istituisce, nell’agosto 1949, il Comando forze repressione banditismo (Cfrb) con a capo il colonnello Ugo Luca, ex uomo di fiducia di Mussolini, già membro autorevole dei Servizi militari (Sim) e, secondo alcune voci, agente del Dipartimento di Stato Americano.

Il rispetto dei patti stabiliti non può riguardare l’amnistia concessa da Togliatti ai separatisti e ai fascisti di Salò il 22 giugno 1946, supposto che i banditi possano beneficiarne. La circostanza è semplicemente impensabile. Ecco perchè l’unica interpretazione che si può dare alla promessa di libertà da parte dei pezzi grossi della politica è l’espatrio, con documenti falsi. E cioè una operazione che soltanto una organizzazione al di sopra di tutto e tutti può portare a termine e su cui De Gasperi e altre forze internazionali possono personalmente garantire. La materia del contendere è, dunque, l’espatrio. Per impedirlo e incastrare Giuliano spingendolo all’esasperazione, Scelba fa arrestare i suoi familiari.  La madre e Giuseppina Giuliano, arrestate nell’estate ’49 assieme a Giuseppe Giuliano (spedito ad Ustica), sono scarcerate nel gennaio 1950 e rispedite a Montelepre. La stessa sorte tocca a Mariannina, scarcerata il 25 ottobre 1949. Ufficialmente  le tre donne escono per motivi di salute. Poi subentra il silenzio, la calma. Giuliano è più tranquillo. Verdiani ha fatto bene il suo lavoro. Gli rimane solo la predisposizione dei dettagli della scena finale.

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La verità sul bandito Giuliano

Siamo negli ultimi mesi del 1949 e finalmente le armi tacciono. Qualcuno decide di chiudere la partita. In un modo ragionevole per tutti. Ma ci sono i dettagli, gli indizi lasciati sul terreno, i dubbi, le contraddizioni. Sempre più estesi come in un puzzle senza fine. Come nei film polizieschi, i dettagli svelano i conti che non tornano. A fornirceli sono diverse fonti. Ci sono i testimoni di quegli anni. Si parla in modo esplicito della trattativa aperta dal monteleprino con lo Stato. Nel paragrafo Giuliano chiede che vengano mantenuti gli impegni il quadro è inquietante.  La Sicilia ha un’aria irrespirabile.  Ben cinque ispettori generali di Ps sono sostituiti in meno di due anni.  Sono  nell’ordine Messana,  Coglitore, Modica, Spanò e Verdiani. Tranne quest’ultimo, tutti scappano dopo pochi mesi di permanenza sul suolo dell’isola. Qualcuno, come Coglitore, non ci mette neanche piede e dirige il suo Ufficio da Napoli. Resiste il solo Verdiani. Questi avvia, e porta a termine, le sue trattative con Giuliano fino al maggio 1950, nonostante non sia più in carica. Dopo, come egli stesso dichiara ai giudici di Viterbo,  lo invitano a farsi da parte perchè è intervenuta – dice – una “nuova organizzazione”. Ha fatto la sua parte fino in fondo.

Nella scena finale della folle tarantella cui assistiamo, non è fuori luogo ipotizzare soluzioni precedentemente sperimentate. Ne parla, ad esempio, Gavin Maxwell (1914-1969), nel libro Dagli amici mi guardi Iddio edito da Feltrinelli nel 1957. Lo scrittore scozzese,  ex istruttore dello Special Operations Executive (Soe) britannico durante la seconda guerra mondiale, svolge proprio a Montelepre una delle prime inchieste sul bandito.  Forse qualcuno, nella sua madrepatria, gli ha raccontato come sono andate realmente le cose. Quando arriva tra quelle montagne, ne coglie la particolare cultura, gli usi, gli atteggiamenti delle persone. Interroga testimoni, visita luoghi, legge documenti, ricostruisce scene e ambienti di appena cinque anni prima. Come un regista alle prese con un casting immaginario. Molte sue affermazioni sono raccolte dal vivo, anche se lo stile del lavoro è di tipo narrativo. Ma c’è da credergli perchè nella rappresentazione realistica che ci fornisce, tutto è verosimile, spinto dalla voglia di sapere. Maxwell dice e non dice, usa metafore, allude a qualcos’altro, a fatti inconfessabili. E ciò non gli impedisce di  lasciare intravedere importanti verità.

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"God Protect me from my friends" (London, 1956)

Si sta preparando il terreno per ciò che avverrà nel 1950. Gli Stati Uniti d’America sono una realtà ben presente nella famiglia Giuliano. Vi emigrano nel 1903 il padre del futuro bandito, e Maria Lombardo, sua madre. Si stabiliscono a New York e precisamente a Manhattan, sulla Settantaquattresina Strada Est. Qui, all’inizio del 1922, è concepito Salvatore, ultimo di quattro figli. La vita è dura per questa famiglia siciliana. Il padre, per vivere, fa lo scaricatore di merci nel quartiere. Ci rimangono anche delle foto di questo periodo americano. Sono pubblicate dai rotocalchi italiani negli anni Cinquanta. Immagini che sembrano uscite dal film Il padrino di Francis Ford Coppola.

Verdiani deve curare i particolari della soluzione finale. Il patto è già firmato, dice Maxwell. L’ispettore può tornare a Roma. Nel marzo 1950 lo raggiunge il boss Miceli, da Monreale. Hanno entrambi un compito da svolgere. Maxwell non potrebbe essere più esplicito. Ha soggiornato parecchi mesi nell’isola. E come agente segreto di lungo corso, sa cose che non può dire. Ma scrive: “A sipario abbassato, il pubblico in sala chiacchierava e si agitava. Dietro il sipario, erano all’opera i servi di scena, portavano via lo sfondo delle montagne biancastre su cui si profilava, in lontananza, una caserma devastata, toglievano le quinte, rappresentanti vigneti, uliveti, fichidindia, boschetti di vimini, raccoglievano i poveri rustici strumenti che erano rimasti appoggiati al muro di una capanna, e sostituivano a quella scena, ormai per noi familiare, la veduta di una strada di Castelvetrano. Non più la luce dura del Mezzogiorno sul cielo abbagliante di cobalto, ma il pallido misterioso splendore di un’alba mediterranea, le ombre ancora lunghe che disegnavano un cortile e un arco. Muri e gradini sbrecciati. Nei camerini un attore si rifaceva il trucco. Anche Luca, infatti, aveva avuto un incontro segreto ‘nel cuore della notte’ con un uomo al quale aveva indicato la parte che doveva recitare”.

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Maria Lombardo, madre di Giuliano, a New York nei primi anni del '900

Maxwell ci racconta che all’alba del 5 luglio 1950 “un giovane, come immerso in un sonno pesante” giace a terra, in un cortile di via Mannone, a Castelvetrano. Più tardi cominciano a circolare voci, secondo le quali Luca ha fatto arrivare nel paese del capomafia Giuseppe Marotta, un “autocarro con scritti sulle fiancate i nomi dell’Istituto cinematografico Luce e di due giornali, La Gazzetta dello Sport e Il Paese“. Vi spicca la pubblicità delle Avventure di Paperino. I tecnici di questo film, che non sarà mai girato, sono carabinieri travestiti. E’ una carovana felliniana, che si mette in mostra per città e campagne nella zona di Castelvetrano. Come nella promozione di uno spettacolo da circo equestre. Il maestro delle scene è Luca. Lo segue a ruota il capitano dei Cc Antonio Perenze. Con i suoi uomini in divisa. L’autocarro su cui la ciurma si muove è munito stranamente anche di “un’antenna radio perfettamente visibile”. E’ da qualche giorno che  la gente, incredula, li vede. Uno spettacolo insolito. Ma a cosa serve un’antenna radio in quelle circostanze? Chi è e dove si trova l’attore principale? Il “camerino” di cui parla Maxwell (p.148) può mai trovarsi fuori da quell’autocarro, se le scene si stanno girando proprio a Castelvetrano, in via Mannone e nel cortile dell’avvocato Gregorio De Maria?  E’ tutto un apparato degno di Cinecittà, destinato proprio a chiudere l’affaire del capobanda monteleprino.

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La folla tenuta a distanza. Foto V.Montalto, archivio Corseri

Ma torniamo al cortile De Maria e a Maxwell: “Il corpo di Giuliano giacque per tutta la mattina del cinque luglio là dove si diceva che era caduto, nel cortile del numero civico 14, di via Serafino Mannone. L’arco per cui vi si entra fu bloccato da una Fiat intorno alla quale stava a guardia un reparto di carabinieri, i quali impedivano l’ingresso e la vista alla folla che si addensava nella strada”. Il corpo rimane nel cortile fino a mezzogiorno e, adempiute le formalità di rito (descrizione della posizione dell’individuo e degli oggetti intorno), il procuratore generale, Emanuele Pili, ordina di trasportarlo all’obitorio di Castelvetrano. Scrive Maxwell: “Lo sollevarono dolcemente, come un compagno ferito, ed un carabiniere gli pulì la fronte che al contatto con la terra, nel cortile, s’era sporcata di polvere” (p. 162). Il

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Ingresso al cortile di via Mannone ostruito da una Fiat, 5 luglio '50 (foto Montalto, archivio Corseri, www.castelvetrano.eu)

periodo tradisce qualcosa di indicibile. I carabinieri usano molto riguardo verso questo corpo, al punto che uno di loro gli pulisce la fronte. Che, però, non è sporca di polvere, come si vede chiaramente dalle fotografie scattate da Vincenzo Montalto. Quel gesto sembra l’atto caritatevole che un infermiere compie piuttosto verso un ammalato, forse leggermente sudato. A questo punto arriva un carro funebre, sul quale i carabinieri depongono quel corpo. Poi il carro si dirige verso l’obitorio, dove viene eseguito un “sommario post mortem” da parte del prof. Ideale del Carpio. Quindi è eseguita la maschera in gesso del volto.

Da questo momento sono ammessi i giornalisti e la folla con il seguito dei fotografi. Ma che cosa accade nel lasso di tempo che intercorre tra l’ingresso del carro funebre all’obitorio e il momento in cui il pubblico viene ammesso di fronte al morto? E che caratteristiche presenta questo corpo?

Su queste domande sta indagando la polizia scientica di Roma.

Giuseppe Casarrubea e Mario J. Cereghino


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