Posted 15 marzo 2014 in Serbia with 1 Comment
di Filip Stefanović
Aprendo la pagina web del Partito Progressista Serbo (SNS, Srpska Napredna Stranka), espressione dell’attuale presidente della repubblica Tomislav Nikolić e del vicepremier Aleksandar Vučić, sembra di aver sbagliato tempo e partito: tempo, perché se è vero che domani, 16 marzo 2014, ci saranno elezioni parlamentari anticipate, non pare che l’SNS abbia ritenuto di dover fare campagna elettorale alcuna, non c’è riferimento immediato alle elezioni né ad un programma attinente; partito, in quanto la prima notizia in copertina è una dichiarazione di Vučić, «Non dobbiamo distinguerci in base alla fede, ma in base all’onestà ed al lavoro», in quanto «la strada più facile è quella di suscitare odi e attriti nazionalistici, ma ciò non è utile e non sarà mai utile né ai bosgnacchi, né ai serbi, né a nessuno».
Del corso europeista di tutti gli ex-nazionalisti serbi, da Vučić al primo ministro Ivica Dačić (del Partito Socialista Serbo) si è qui scritto in più occasioni. La mancanza di convinzione nella campagna elettorale, invero non solo dell’SNS ma di tutti i partiti, di governo così come d’opposizione, è presto spiegata: queste elezioni non sono altro che l’investitura a premier di Aleksandar Vučić, il quale, sin dalle elezioni del 2012 e la nomina a “primo vicepresidente del governo” (un titolo cucito su misura e che sui media serbi è sinonimo di Vučić, quasi un nomignolo personale, dato che da nessun testo costituzionale risulta un “primo” vicepresidente, ma solo vicepresidente di governo), non ha lavorato ad altro che alla costruzione della propria immagine per una futura successione di governo. Al contrario di un Renzi qualunque, però, Vučić esige l’investitura popolare, perché sa che non c’è concorrenza che tenga e ritiene i tempi maturi per raccogliere quanto seminato: secondo i sondaggi, al momento, i serbi non ripongono fiducia maggioritaria nemmeno in un partito, ma solamente in un uomo, Aleksandar Vučić, e c’è da chiedersi cosa egli abbia fatto, o cosa gli altri abbiano sbagliato per portare a tale forbice di consenso.
Potremmo stilare nel dettagli la politica populista, condita da buon marketing, che ha fatto di Vučić l’uomo nuovo della politica serba: dalla campagna contro la corruzione (incentrata sul mediatico arresto del temuto-odiato magnate miliardario Miroslav Mišković), all’attrazione di importanti investimenti arabi (per merito della personale amicizia di Vučić con gli emiri – in verità investimenti tutti ancora da attivare), alla promessa di rivoluzioni nella conduzione della politica e dell’amministrazione pubblica, a spettacolari uscite di scena che in tempi andati gli avrebbero almeno valso una spilla da lavoratore d’urto: dalla dichiarazione che “non va mai in vacanza”, all’esibizione davanti alle telecamere delle punture d’ago per le flebo che gli servono per mantenersi tanto attivo, all’amara constatazione che lui “sa” che lo aspetta la stessa fine sanguinosa di Ðinđić, perché si è fatto – sempre a suo dire – nemici potenti, e che per questo vuole accelerare quanto di più la sua opera riformatrice prima che altri lo mettano a tacere.
È in ciò interessante notare una tendenza apparentemente contrastante, che accomuna la Serbia a larga parte dell’Europa di oggi: ad un progressivo decadimento del livello qualitativo della classe politica nel corso degli ultimi due decenni, si accompagna una sempre più diffusa fede o speranza dell’elettorato in un uomo della Provvidenza in grado di sovvertire senza sforzo ed a grandi balzi i problemi cronici della società, dal lavoro, alle disuguaglianze, allo sviluppo. Da questo punto di vista, la Serbia continua a vivere non nell’edificazione del presente, ma nella smodata attesa di un futuro immaginario, sempre tanto vicino da poter essere intravisto, ma mai così prossimo da essere realmente afferrato.
Non sono le posizioni filo-europeiste e pragmatiche rispetto al Kosovo ad etichettare l’operato di Vučić e Dačić e la loro redenzione (vera o presunta che sia) rispetto agli anni ’90, in cui detenevano posizioni di punta per due giovani dell’establishment di Milošević: che il Kosovo sia un capitolo chiuso e l’Unione europea l’unica strada percorribile per una Serbia esautorata lo dimostrano i fatti, prima che gli intenti politici, e se non ci fossero Vučić e Dačić, ad ormai 14 anni dall’apertura della Serbia alla democrazia parlamentare, ci sarebbe qualcun altro a proporre le stesse soluzioni: a loro, ovviamente, Vučić in particolare, il merito di esser stati i primi a sbloccare una situazione di stallo politico che non avrebbe, in ogni caso, potuto durare per sempre. Il modo, però, con cui viene trattato il potere politico in Serbia, fa capire che la forma mentis di chi guida il Paese non è per niente diversa rispetto al passato: una conduzione particolarista, personale, in cui le istituzioni sono ancelle del potere che ciascun politico, di volta in volta, riesce a costruire su una base puramente individuale, dimostrano che il rapporto dei politici col Paese, e di conseguenza il rapporto dei cittadini con le sue istituzioni, non sono in nulla mutati nel corso degli ultimi quattordici anni. Lo dimostra la stessa incomprensione dei ruoli esecutivi, in uno strambo equilibrio costituzionale nel quale, di volta in volta, assume un ruolo primario il presidente della repubblica, quello del governo, o, nel caso più recente, il suo vicepresidente, puramente sulla base dell’abilità di chi copre l’una o l’altra carica di farsi spazio e ricattare gli avversari.
L’Europa non è oggi la prima priorità della Serbia: essa non può risolvere tutti i nodi, così come non l’ha fatto per la Romania, la Bulgaria, l’Ungheria e da ultimo la Croazia, tutti paesi confinanti con Belgrado e con problematiche interne che vanno di gran lunga oltre le possibilità dell’Unione. I problemi sul tavolo della leadership serba sono gli stessi fin dai tempi di Ðinđić, e se non sono stati affrontati finora è illogico ritenere che sarà quest’ultimo rimpasto di governo a toccarli: la riforma della giustizia, delle pensioni, dell’amministrazione pubblica (cresciuta a dismisura, negli ultimi anni, così come il debito), e, last but not least, di una costituzione del 2006 che, nonostante tutta la lungimiranza di Dačić, parla ancora di Kosovo, di fatto ponendo qualsiasi intenzione di sganciamento nei confronti dell’ex-provincia serba al di fuori dei paletti costituzionali. Un difetto di forma che sembra poco contare per una società che non ha ancora compreso quale sia il valore e la garanzia che dovrebbero rappresentare non Vučić, ma le istituzioni. Perché un Paese che funziona non tira avanti a forza di flebo, e le sua braccia non sono le braccia di Vučić.
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