Sergio corazzini, soliloquio delle cose.

Da Antonio Ragone @AntonioRagone

Sergio Corazzini, poeta nato a Roma nel 1886  e in questa città morto poco più che ventunenne nel 1907.
 

È considerato l’iniziatore della poesia crepuscolare.
 

“Soliloquio delle cose” è un pregevole esempio di poemetto in prosa.
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SOLILOQUIO DELLE COSE

... Je crois que nous sommes à l'ombre. Maeterlinck
Les choses ont leur terrible «non possumus». Hugo

Dicono le povere piccole cose: Oh soffochiamo d'ombra! Il nostro amico se ne è andato da troppo tempo: non tornerà più. Chiuse la finestra, la porta; il suo passo cadde nel silenzio del lungo corridoio in cui non s'accoglie mai sole, come nel vano delle campane immote, poi la solitudine stese il suo tappeto verde e tutto finì.
Qualche cosa in noi si schianta, qualche cosa che il nostro amico direbbe: cuore. Siamo delle vecchie vergini, chiuse nell'ombra come nella bara. E abbiamo i fiori. Egli avanti di andarsene, per sempre, lasciò sul suo piccolo letto nero delle violette agonizzanti. Disperatamente ci penetrò quel sottile alito e ci pensammo in una esile tomba di giovinetta, morta di amoroso segreto. Oh! come fu triste la perdita cotidiana inesorabile del povero profumo! E se ne andò come lui, con lui, per sempre.
Noi non siamo che cose in una cosa: imagine terribilmente perfetta del Nulla.
Qualche volta le campane della piccola parrocchia suonano a morto. Tutto ciò sarebbe tristissimo per noi, povere piccole cose sole, se egli fosse qui. Ma è lontano e le campane non tarlano il silenzio per lui, povero caro.
Un tempo lo vedremmo e l'udimmo piangere senza fine: volevamo consolarlo, allora, e mai ci sentimmo così spaventosamente crocefisse. Oggi, oh, oggi è un'altra cosa: dove piange? perché piange?
Allora lacrimò desolatamente perché una sua piccola e bianca sorella non veniva, a sera, come per il passato, a farlo men solo... o più solo. Così egli le diceva mentre l'abbracciava. E soggiungeva: «Noi ricordiamo e nulla come il ricordo è simbolo di solitudine e di morte». Rievocavano molte liete fortune e molte tristi vicende, anche, ma non troppo di queste si amareggiavano.
Una sera il nostro amico attese inutilmente. Attese fino all'ora delle prime rondini e delle ultime stelle...
Oh, egli ci voleva bene: qualche volta ci parlava a lungo, come in sogno. In sogno parlava. Avanti di dormire, accendeva un piccolo lume giallo, sospeso al muro. Forse aveva paura.
È una così dolce cosa, la paura, appunto perché è dei fanciulli!
Noi non dormiamo; noi siamo le eterne ascoltatrici, noi siamo il silenzio che vede e che ascolta: il visibile silenzio.
La casa dev'essere molto vasta. Udiamo a tratti delle voci lontanissime e che pensiamo non vengano dalla piccola piazza. Oh, la finestra, se si spalancasse e facesse entrare un poco di sole, un poco di vento! oh, nulla è simile al cuore perduto come il sole che vuole entrare, e tutti i giorni domanda e tutte le sere, triste e bianco, smuore di rinunzia.
Un convento, una chiesa, un lungo muro basso, interrotto da due piccole porte, la cui soglia allora era sempre verde. La neve restava intatta, davanti a quel muro, un tempo interminabile. Il nostro amico diceva che una porta chiusa è figurazione di gran gioia. Noi siamo semplici, non abbiamo mai comprese queste parole, sarà, forse, perché siamo così sole e così sconsolate, da tanti anni, in questa camera chiusa!
Oh, gli occhi aperti smisuratamente nell'ombra terribile, sono così simili a noi! Sanno vedere ma non possono vedere.
Per quanto ci disfaceremo nel buio come le stelle dietro le nuvole? Per quanto la nostra cecità apparente, ci vieterà il sole, o, forse anche, un poco di dolce luna?
Come tante piccole monache in clausura, noi, povere cose, viviamo e morremo. Pietà! Pietà!
Quante rughe ci solcano! Siamo vecchie, oh così vecchie da temere la fine improvvisa. E la polvere che noi pensavamo cipria, ci seppellisce cotidianamente come un becchino troppo scrupoloso.
Come ci carezzavano le tende, piene di vento a primavera! Ella doveva carezzare così il nostro amico, doveva farlo morire di spasimo, così. Ora, anch'esse, come le vele di una decrepita barca inservibile, chiusa nel vano di un piccolo porto solitario e triste, pendono flosce e vecchie: oggi una loro carezza ci farebbe pensare alle mani di un agonizzante.
Un passo. Una mano tenta la chiave... oh, non spasimiamo: è un bambino, è il solito bambino di tutti i giorni, che passa lungo il corridoio per andare chi sa dove; non spasimiamo, è inutile.
Sergio Corazzini

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