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SERIAL LOVERS: I revenant in TV (Prima Parte)

Creato il 30 ottobre 2013 da Fascinationcinema

Zombie-voodoo e zombie-antropofagi

 

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“Pensavo che la sola bellezza mi avrebbe soddisfatto, ma è una bellezza senz’anima! Non riesco a sopportare questi occhi spenti, fissi!” piagnucolava pentito Beaumont, l’innamorato protagonista de “L’isola degli zombies” nel 1932, alla sua amata riportata in vita da Legendre, lo stregone interpretato da Bela Lugosi nel primo film del genere. Come appreso dagli stregoni caraibici da cui nasce la leggenda degli zombie veri, o zombie-voodoo, drogati da misteriose pozioni fino a sembrar morti e rianimati dopo giorni, o anni, da pozioni-antidoto, Legendre riportava in vita corpi apparentemente esanimi senza però restituirgli la volontà, per farne degli schiavi nelle proprie piantagioni di canna da zucchero.

Ma di che ti lamenti Beaumont? Almeno la tua letargica e silenziosa Madeleine è ancora bella, non si sta decomponendo, non puzza come una carogna al sole e non cerca di divorarti le budella con il suo morso contagioso scatenando una pandemia! Solo nei tardi anni sessanta infatti, Romero introduce nell’immaginario collettivo la figura dell’infettivo zombie-antropofago, destinato ad avere la meglio su tutti gli altri tipi di zombie al cinema e in TV, guadagnandosi un vastissimo seguito di appassionati.

Io, personalmente, non ne ho mai compreso l’appeal ed agli zombie claudicanti, ottusi e fetenti ho sempre preferito la sensualità dei vampiri e la malvagità delle streghe cattive. Ciononostante, l’aspetto sociale della resurrezione dei morti è indiscutibilmente interessante e quindi anch’io, come tutti, ho assunto negli anni la mia dose di Romero, Fulci, innumerevoli B-movies e perfino ventisei ore di fucilate e cervelli sprizzanti nella serie cult americana dell’AMC “The Walking Dead”, basata sull’omonima serie a fumetti di Robert Kirkman, che dal 2010 porta in TV, davanti a undicimila spettatori a puntata, la classica saga apocalittica dei cadaveri viventi che invadono il mondo, con tanto di protagonista che nel primo episodio si risveglia in un ospedale deserto, esattamente come Cillian Murphy nel film “28 giorni dopo”.

A dire la verità c’era già stato un simile approccio televisivo nel 2008, arrivato anche su MTV Italia nel 2010, da parte del britannico Charlie Brooker, più conosciuto come creatore della bellissima mini-serie inglese Black mirror: si chiama “Dead set”, cinque puntate (io ho gettato la spugna a metà della terza) in cui gli unici superstiti dell’epidemia sono gli ignari concorrenti rinchiusi nella casa del Grande Fratello e l’assistente di produzione del programma.

Ammetto invece di aver subito il fascino epico di “The walking dead” e di essere fiera di aver superato le prime due stagioni per arrivare alla terza che, tra la città fortificata, la prigione e la tizia che si porta al guinzaglio come cani da guardia due zombie mutilati, è un capolavoro dal punto di vista della riorganizzazione dei sopravvissuti. Ma forse non mi sarei lasciata convincere se avessi saputo che quelli che io chiamo gli “zombie-chic” erano arrivati, anche loro, sul piccolo schermo…

 

Zombie-chic: i revenant in TV

 

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Ci avevano provato gli Americani già nel 2007 con l’episodio pilota di “Babylon Fields”, dove i protagonisti, invece che zombie affamati e malevoli, sono semplicemente cadaveri resuscitati che escono dalle tombe, pallidi, un poco disorientati, sporchi di terra ma (quasi tutti) pieni di buoni propositi. Tornano alle loro dimore, cercano di calmare i familiari palesemente scioccati: “Lo so, lo so, è pazzesco… Parlatene, tu e Marta, che io intanto vado a farmi una doccia”. Sanno di essere resuscitati ma non hanno idea del perché: “Sono il più fortunato figlio di puttana mai esistito, eh?”, commenta uno di loro.

La CBS non commissionò mai la serie, che in effetti, a giudicare dal pilot, era un malriuscito tentativo in bilico tra black comedy e dramma, con l’immancabile sceriffo buono che aveva perso la giovane consorte ed il poliziotto cattivo morto ammazzato da moglie e figlia e sotterrato in un cantiere dismesso. Eppure aveva una buona angolazione per osservare le conseguenze emotive e sociali dei cari che tornano dall’oltretomba sotto forma di zombie-revenant (dal verbo latino revenio, cioè ‘ritornare’, il revenant è colui che ritorna), la varietà più antica di zombie, che ha origine nel folklore europeo. Gli zombie-revenant sono poco, o per niente, soggetti alla putrefazione, tendono a mantenere la propria personalità, le proprie capacità intellettuali e locomotorie, i propri ricordi e non sono necessariamente contagiosi cannibali golosi di carne umana.

Ma se in un dramma televisivo vuoi black comedy di qualità e senza bisogno di eccedere con lo splatter, lascialo fare agli Europei.

Ad esempio, nell’originale britannico della serie “Being human”, in onda dal 2008 sulla BBC 3, che è un po’ la versione horror di “Friends” dove un vampiro, un licantropo e una donna fantasma condividono una casa a Bristol, incontriamo uno zombie-revenant nel terzo episodio della terza stagione. E’ un’esuberante ragazza di nome Sasha, che evade dall’obitorio dove medici senza scrupoli praticavano su alcuni zombie dolorosi esperimenti scientifici e finisce, innocua ospite, a casa dei protagonisti. Apparentemente ignara della propria condizione, la giovane non si rende conto del fetore di morte che emana e tutto quel che vuole è andare a divertirsi in discoteca. Costretta poi ad accorgersi che la putrefazione sta avendo la meglio sul suo corpo, non la prende bene, allora la fantasmessa, impietosita, la trucca e la agghinda per un’ultima serata in discoteca, dopo la quale la zombie morirà definitivamente, ma dignitosamente, nel letto della stanza degli ospiti.

Anche nella terza stagione dell’omonimo remake americano di “Being human”, gli zombie fanno la loro comparsa e perfino il cadavere della protagonista fantasma viene riportato in vita da una strega. Ma qui i corpi rianimati hanno un’insaziabile fame di carne fresca, unico rimedio contro la decomposizione. Dapprima topi e gatti sono sufficienti ma presto la fame di carne umana si farà sentire, un po’ come nel settimo episodio della terza stagione della serie britannica “Misfits”, dove l’attrice Charlene MacKenna viene riportata in vita per volere del suo ragazzo. Per non mangiarsi l’amato, si mangia prima il suo iguana domestico nascondendone i resti dietro al comodino, per poi mangiarsi ed infettare anche il vicino di casa.

Ma un vero zombie-revenant televisivo degno di questo nome lo troviamo, secondo me, proprio in Misfits: uno che muore, resta morto per qualche ora, tempo durante il quale le ferite si rimarginano, e torna poi improvvisamente in vita. E bisogna ammetterlo, non s’è mai visto un revenant più sexy, dispettoso, sboccato e divertente del Nathan Young interpretato dal mitico Robert Sheehan, l’irlandese che con i suoi riccioli a spirale e i suoi impareggiabili tempi comici ha fatto la storia ed il successo della serie, prima di abbandonarla dopo due sole stagioni, segnandone per sempre il decadimento qualitativo! Ma forse lo rivedremo ancora, ultimamente girano voci insistenti su un prossimo “Misfits – The Movie”. Come molti sapranno, i giovani delinquenti protagonisti di “Misfits”, quasi a parodiare i supereroi della serie americana Heroes, dopo una tempesta di fulmini si ritrovano con dei poteri che riflettono le proprie personalità… Il timido che diventa invisibile, il pentito che riporta indietro il tempo, la narcisista che eccita sessualmente chi la sfiora, la coattona permalosa che legge il pensiero altrui… Solo Nathan, benché per tutta la prima stagione dichiari di ‘sentirselo nelle palle’ di averne uno, non sa che il suo potere è l’immortalità e lo scoprirà solo nella seconda stagione quando, dopo una rovinosa caduta da un tetto, si risveglierà nella sua bara, sottoterra, vivo e vegeto e con i pantaloni imbrattati di feci, come succede normalmente ai morti. Morirà svariate volte nella seconda serie (con un tubo di metallo che gli perfora la pancia, con una pallottola in testa e via dicendo…) ed imparerà perfino a non farsela addosso, così come l’ha imparato Amy, il mio zombie preferito nella nuova perla inglese dal titolo “In the Flesh”, interamente dedicata a zombie-antropofagi resi però zombie-revenant dalla scienza medica. Amy infatti a tavola, con poca eleganza, spiega candidamente di non poter mangiare perché “No grazie, ho le budella decrepite, se mangio solidi li rifaccio subito!”.

 

In carne ed ossa: la sindrome da decesso parziale

 

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“In the Flesh” (in carne ed ossa) è una serie, purtroppo ancora inedita in Italia, creata da Dominic Mitchell, commediografo teatrale che, aiutato dallo scrittore della serie “Torchwood” John Faye, passa per la prima volta a scrivere per la TV, per la BBC 3 in questo caso, dove sono andate in onda le prime tre puntate nel Marzo del 2013. La seconda stagione è già stata commissionata, sarà probabilmente di cinque o sei episodi e promette anche nuovi personaggi.

Mitchell ammette che il famoso romanzo di Stephen King “Cimitero vivente” letto da bambino fu una rivelazione ed “…il concetto della morte che torna in vita è sempre rimasto con me”. Poi una tarda notte, guardando uno dei tanti pessimi film sugli zombie, si chiese “E se essere uno zombie fosse considerato una malattia neurologica, una sindrome? Cosa farebbe il governo?”. Discusse allora, con alcuni psichiatri, la riattivazione della neurogenesi delle cellule cerebrali e qui la sceneggiatura divenne palesemente British. “Noi Inglesi abbiamo questa mentalità: mantieni la calma e vai avanti. Non so, forse gli Americani sarebbero più bravi a gestire il problema, sarebbero probabilmente più sinceri riguardo ai propri sentimenti verso i malati di PDS”.

I malati di PDS sono i pazienti affetti dalla Sindrome da Decesso Parziale (o ‘i marci’, come li chiamano i razzisti…). Nel 2009, una resurrezione di massa dei morti recenti fu seguita da mesi di guerriglia urbana tra zombie romeriani affamati di carne umana e umani armati fino ai denti. Pian piano il governo inglese riprese il controllo delle città e due scienziati, Halperin e Weston (in omaggio al regista ed allo sceneggiatore de L’isola degli zombies), crearono un antidoto, la neurotriptalina, che li rendeva docili ed inappetenti. Ucciderli a quel punto sembrava immorale quindi li rinchiusero in un istituto penitenziario di Norfolk, che trasformarono poi in casa di cura quando si accorsero che, trattati con la neurotriptalina che rivitalizza i neuroni, gli zombie tornavano pian piano ad essere se stessi. Ma hey, caro gli costa allo Stato mantenere tutti questi zombie! “Stavo facendo delle ricerche su i servizi sociali e l’assistenza medica a domicilio” – racconta Mitchell – “ed ho pensato: ecco cosa farebbe il governo, specialmente adesso con il taglio dei finanziamenti!”. E qui inizia la serie, quattro anni dopo la resurrezione, nel 2012, quando i soggetti affetti da PDS, reputati idonei al reintegro nella società e discolpati degli omicidi commessi prima della cura, vengono rispediti alle loro famiglie.

Ad ogni malato di PDS viene fornito un kit contenente fondotinta per coprire il pallore cadaverico, lenti a contatto per mascherare gli impressionanti occhi vitrei e delle fiale di neurotriptalina da iniettare sotto la nuca, tra la prima e la seconda vertebra, obbligatoriamente per legge una volta al dì per evitare che da revenant tornino ad essere, in men che non si dica, bestiali zombie-antropofagi. E naturalmente, per assistere psicologicamente i familiari, che all’improvviso si ritrovano uno zombie in casa che non mangia e che non dorme, ci sono gruppi di sostegno ed assistenti sociali che aiutano ad elaborare il lutto tornato in vita, che ti mostrano come somministrare la medicazione e con cui parlare delle strambe conseguenze quali lettere di fan arrapati dall’idea di far sconcerie con uno zombie.

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La serie segue il rientro a casa di Kieren, un adolescente gay che vive in un’omofobica e bigotta cittadina inglese dove la maggior parte della popolazione supporta l’HVF, l’esercito di umani volontari, in cui è arruolata perfino la sorellina di Kieren, che fanno le ronde per sparare in testa ai marci ritornati. Per proteggerlo, i genitori lo tengono in casa e Kieren sta sempre chiuso in camera sua a piagnucolare sulle foto dell’ex fidanzato Rick, militare morto in Afghanistan, tranne a pranzo e a cena, quando deve sedersi a tavola con i genitori e far finta di mangiare, mimando solo i gesti, per far contenta la mamma. Almeno finché non incontra Amy, che lo porta spesso a fare due passi. Giovane leucemica resuscitata per tornare ad essere l’anticonformista che fu, Amy infrange le regole e se ne va in giro “acqua e sapone”: cianotica, labbra livide ed occhi bianchi, e chi la fissa attonito si becca un bel “Ma che ti guardi?”.

“Dio asciugherà le loro lacrime e quando risorgeranno saranno come gli angeli in Paradiso!” dice Amy scimmiottando le citazioni bibliche che “Il profeta”, un terrorista mascherato, anche lui affetto da PDS, posta nei suoi video su YouTube. Nel frattempo il prete della cittadina, insieme a conniventi politici locali, tiene comizi urlando come un pazzo per mettere in guardia contro i ritornati, questi cattivi impostori della prima resurrezione, in attesa della seconda resurrezione, quando solo i buoni risorgeranno.

“Se ci fosse un’apocalisse in Gran Bretagna, la scienza non saprebbe fornire risposte e la gente si rivolgerebbe alla religione. Nella serie, la causa esatta della resurrezione non trova una spiegazione.” spiega Mitchell, “Come per molte malattie, non sappiamo cosa le abbia scatenate, sono fenomeni che accadono. Mi piace che non si dia una risposta, così ognuno ne trae la propria interpretazione. Oddie, il prete, crede abbia a che fare con l’apocalisse e dice sono demoni, bisogna ucciderli, citando gli stessi testi sacri citati dal Profeta, che trova invece in essi le parti in cui si glorifica la purezza dei resuscitati e le usa per inneggiare alla loro superiorità sui vivi: siamo meglio di loro, non dovremmo prendere questa medicina! Tutti gli antichi testi religiosi parlano di non-morti e resurrezione. Credo sia per questo che il genere zombie attrae tanto pubblico, fa parte del nostro desiderio di far tornare in vita i defunti e la nostra disperata voglia di immortalità.”.

C’è da dire che in queste serie i bigotti ne escono spesso un po’ malconci. In Babylon Fields un innocuo zombie-revenant viene cacciato dalla chiesa che frequentava in vita e aggredito a calci e pugni sul sagrato da un folto gruppo di parrocchiani. “E vi definite cristiani!” gli urla contro il buon zombie allontanandosi. Come disse l’avvenente Pam in True Blood di fronte ad una folla che protestava gridando che ‘Dio odia i vampiri’: “Lasciamo a questa brava gente il diritto costituzionale di essere dei fottuti idioti…”.

Comunque, a parte alcuni flashback allucinatori che tormentano Kieren rammentandogli l’assassinio cannibalesco compiuto da lui ed Amy in un supermercato prima della cura, In the flesh ha di splatter poco o nulla, ma l’atmosfera introspettiva e la riservatezza inglese la rendono claustrofobica, a tratti molto toccante, quando ci mostra come le persone reagiscano in modo diverso di fronte agli eventi. I magnanimi sostengono che gli zombie vanno catturati, non uccisi: bellissimo il primo piano del volto di una bambina affetta da PDS non trattata, su cui cade la rete della cattura, mentre lei resta immobile ed assente tra le braccia del papà, anche lui non trattato. Il comandante dell’esercito di volontari invece, che spara a sangue freddo una pallottola in fronte ad un’anziana vicina di casa “marcia” mentre lei, in ginocchio in lacrime in mezzo alla strada, lo supplica di risparmiarla, cambierà atteggiamento quando suo figlio Rick tornerà, risorto, dalla guerra. La mamma di Kieren intanto lo consola dicendogli “Ti amerei anche se tornassi sotto forma di pesce rosso…”.

Normalmente il ritorno di una persona amata allieta ed il revenant è felice di avere una seconda chance. Ma il tratto interessante della storia di Kieren è che, per la depressione causata dalla scomparsa di Rick, Kieren si era tolto la vita tagliandosi i polsi ed aveva espressamente chiesto ai suoi genitori di essere cremato. Loro invece l’avevano fatto seppellire, proprio la notte prima della resurrezione generale. Che sfiga. Non è quindi, giustamente, al settimo cielo di essere di nuovo vivo e di doversi interfacciare con il profondo rancore dei familiari, ai quali aveva consapevolmente e volontariamente inflitto il dolore di perdere un figlio ed un fratello.

Barbara Rossini


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