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Sermo nobilis e sermo vulgaris sulla riva dello Stirone

Creato il 12 agosto 2012 da Ambrogio Ponzi @lucecolore

Sermo nobilis e sermo vulgaris sulla riva dello Stirone

Il torrente Stirone a sud di Fidenza in un olio del pittore
Ettore Ponzi (1908-1992) datato anno 1948


Il prof. Franco Bifani si accosta con tremore e rispetto all'ultimo lavoro di Claretta Ferrarini che dopo trent'anni di fatiche ha completato il dizionario di "dialetto borghigiano doc". Un'opera non facile praticata su una lingua viva e quindi soggetta a contaminazioni. Un'isola linguistica non è mai un'isola, e se questa isola virtuale la collochiamo nella pianura padana, ai piedi delle colline, quale possibilità di mantenerne immutato il bagaglio antropologico o linguistico?
E allora anche lo studio di un dialetto diventa uno scavo e chissà quanto materiale, apparentemente sedimentato lungo il breve tratto del torrente Stirone che chiude Fidenza (Borgo San Donnino) verso Piacenza, la Claretta ha dovuto scartare! Ma passiamo la parola al nostro Franco Bifani che di greco, di latino e di lingue volgari senz'altro ne sa.

Sermo nobilis e sermo vulgaris sulla riva dello Stirone

Il borgo medievale di Borgo San Donnino in una
ricostruzione del pittore Ettore Ponzi


L'opus magnum di Claretta
Ignoro di quali fatiche abbia dovuto sobbarcarsi la Claretta, per arrivare alla conclusione del suo opus magnum di etimologia del dialetto fidentino, o borgsàno, che dir si voglia. Posso solo immaginare quali sentieri scoscesi, ristretti, sassosi, quali plaghe disagevoli ed infide, quali salite e discese impervie e fuorvianti abbia dovuto scalare e ridiscendere, sotto ogni clima, favorevole ed avverso, tra monti, piani, brughiere, al solleone dardeggiante, al gelo più attanagliante, sotto piogge tropicali, nell'afa più pesante. Mi viene in mente, al proposito, il racconto drammatico del viaggio del diacono Martino, nell'Adelchi manzoniana, per giungere, alfine, al campo dei Franchi. Non so nemmeno se qualcuno l'abbia mai sostenuta e soccorsa, confortata, rifocillata, nel suo faticoso avanzare tra le insidie della scienza etimologica, diradandone la folta jungla infida a colpi di machete linguistico. La quale scienza, già è ardua per chi analizza una lingua ormai stabile e standardizzata, ma, per un vernacolo strettamente localizzato, in senso geografico e linguistico, deve averle suscitato non poche barriere ed ostacoli. Claretta, donna impavida, ha sfidato tempeste, uragani, tifoni, si è forse arenata tra secche e calme piatte, ma poi, ha ripreso la navigazione, ritrovati fiato e forze, senza meno dopo aver degustato certi suoi manicaretti succulenti e prelibati. Il suo aspetto, augusto, severo e matronale, che incute sempre in me un certo qual reverenziale rispetto, ha spianato, o reso più dolci e percorribili, i numerosi clivi e declivi. Dopo una dura maratona di ricerche scientifiche, linguistiche e quant'altro, in occasione ed in concomitanza con la chiusura delle Olimpiadi britanniche, anche lei ha tagliato il filo di lana del suo lungo e faticoso certame, senza rivali attorno a sé. Sulle orme di Ottavio Pianigiani, anche Claretta, per il dialetto borgsàno, conosce bene il valore del vernacolo, nella sua lunga vicenda, antica di millenni; ogni dialetto è una lingua, ha solo dei limiti non di espressione, ma di comprensione sociale, specie qui da noi, in Italia, dove i dialetti sono presenti a centinaia. I dialetti hanno arricchito la lingua ufficiale, dai tempi del Padre Dante, così come essa ha trasfuso, in essi, per un'osmosi naturale, espressioni, lessico, moduli grammaticali e sintattici. Claretta sa bene che tutti noi parliamo un dialetto di una lingua; e, per quello nostrano, di origini galliche e preindoeuropee, ella ne ha scavato e scovato le origini e le radici, che si perdono nella notte dei tempi e degli spazi. Novella Aracne, ha tessuto una tela con trame sapienti ed orditi difficoltosi da intrecciare assieme; come sia riuscita a farlo, mi suscita curiosità, ammirazione, stima e rispetto. Lo studio delle lingue e dei dialetti mi ha sempre appassionato, specie per quel dualismo secolare tra sermo nobilis e sermo vulgaris; la filologia romanza mi ha acceso la mente ed il cuore, al calor bianco, quando ero uno studente universitario. Claretta ha resuscitato a nuova vita e ha donato nuova voce, chiara e forte, a innumerevoli generazioni di lontani nostri antenati, che hanno, giorno dopo giorno, costruito il dialetto locale, inconsapevolmente, umilmente, modestamente, impastandolo con il sudore del loro duro lavoro giornaliero. Purtroppo, più il tempo avanza, meno numerosi sono i cultori di quello che, sprezzantemente, tanti accademici snob considerano la lingua degli ignoranti e semianalfabeti. Ed anche chi, oggi, parla il dialetto, vi trasporta, spesso e maldestramente, parole tratte dall'italiano letterario. Certi antichi vocaboli ed espressioni, o sono morti, in silenzio, o non sono più usati ed intesi che da pochi superstiti. Tra di essi, rari nantes in gurgite vasto, emerge, intrepida e trionfante, la Claretta. Il vernacolo, stranamente, sta diventando, se scritto e parlato nella sua originale purezza, un elemento di élite, di rari personaggi che lo coltivano e lo nutrono con amorevole cura, tra l'indifferenza del prossimo. Ciò non è cosa buona, equa, giusta e salutare; è come se un figlio ripudiasse e disprezzasse i genitori, i nonni, e disdegnasse i propri antenati, relegandoli nel dimenticatoio più oscuro ed indegno. Grazie, Claretta, per quanto hai portato a termine, con fatica; mi inchino dinnanzi alla tua opera, che io considero, fin d'ora, un capolavoro unico nel suo genere. Anche tu, Claretta, come Orazio, potrai forse, presto, proclamare: “Exegi monumentum aere perennius!” 
Franco Bifani

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