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“Sessantacinque sogni di Franz Kafka” – Félix Guattari

Creato il 06 ottobre 2011 da Temperamente

GuattariMetamorfosi, sdoppiamenti, effetti non consequenziali alle loro cause, presentimenti, dejà vu… Ma come faceva Kafka a rappresentare così bene la logica del sogno? Ce lo spiega Félix Guattari in Sessantacinque sogni di Franz Kafka, un testo del 1984 pubblicato postumo in Francia e tradotto in Italia da Cronopio.

Kafka nutriva un grande interesse per i suoi sogni: li annotava con cura nei diari o descriveva minuziosamente nelle lettere. Oltre sessanta sono stati rintracciati dallo psicanalista francese Félix Guattari (già autore, con Gilles Deleuze, del saggio Kafka. Per una letteratura minore), che ha visto in essi molto più di comuni «sintomi da psicopatologia della vita quotidiana». Dall’analisi di Guattari emerge un Kafka artista nell’afferrare l’inafferrabile, a cominciare da quel che Freud chiamava «l’ombelico del sogno» e che spesso, a causa dei «punti di non-senso» che racchiude, sfugge alla stessa interpretazione psicanalitica. Kafka sembrava invece in grado di carpirlo e di conferirgli anche un alto valore letterario. Secondo la suggestiva tesi di Guattari, infatti, la trascrizione dei sogni costituiva per Kafka «uno strumento di scrittura, un metodo d’elaborazione dei suoi oggetti letterari».

Ma se Kafka scriveva come sognava, sognava anche come scriveva: lettere, sogni, racconti, diari e romanzi appaiono come un sistema di vasi comunicanti e dai contenuti indiscernibili, al punto che molti sogni riportati nelle lettere raccontano essi stessi di scambi epistolari. Nell’immaginario onirico di Kafka ricorrono inoltre: città sconosciute, congegni meccanici, uomini in divisa e prostitute, più una serie di gesti strani, di posture innaturali del corpo (come il capo esageratamente chino, a indicare un desiderio bloccato) e di menomazioni fisiche (cecità e claudicazione, ma anche un certo depauperamento dei personaggi che mi ha fatto pensare a Beckett). E poi ci sono gli animali, soprattutto cani («Un cane mi stava sul corpo, una zampa accanto al viso» è l’inizio di un sogno del 1911 che mi ha evocato l’incipit de L’avvoltoio).

Al di là di tutte queste figure, che pure colpiscono molto, ad avermi affascinato è stato soprattutto il modo in cui determinati scenari sono rappresentati: in un sogno del 1920, ad esempio, Kafka deve incontrare una persona, ma l’unica concessione che ottiene è il permesso di starla ad aspettare. Ecco: l’attesa, l’irraggiungibilità, l’umorismo implicito di certe contraddizioni, la sensazione che un piccolo incidente stia per causare un’immane catastrofe sono tutti elementi che portano al capovolgimento della sequenza logica reato-colpa-punizione. Sì, perché in Kafka – nei suoi sogni come nella sua opera – non occorre aver commesso dei reati per essere puniti, ma basta essere puniti perché non valga neanche più la pena chiedersi se si è colpevoli o innocenti.

La conclusione, emblematica, di Guattari è che «l’effetto enigmatico e l’ambiguità permanente generati dai testi di Kafka riescono ad esprimere le potenzialità inconsce di tutta un’epoca». Ovvero: la bravura di un autore come Kafka sta nell’aver trasformato le sue ossessioni in storie che, turbandoci, hanno saputo cogliere qualcosa che si nasconde nel profondo di ognuno di noi.

Andrea Corona

Felix Guattari, Sessantacinque sogni di Franz Kafka [2007], Cronopio, tessere, Napoli 2009, 89 pp., 11,50 euro.


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