Se i libri li si amasse per la copertina, questo sarebbe uno dei miei romanzi preferiti. È, quindi, un vero peccato che io abbia deciso di leggere “Sezione suicidi” di Antonin Varenne (Einaudi, 2011).
Il risvolto di copertina promette miracoli – l’autore si è abbeverato alle migliori fonti del poliziesco, l’intreccio è complesso ma perfettamente credibile, dialoghi realistici.... Devo quindi dubitare delle mie facoltà mentali, perché tutte queste cose non le ho trovate. Credetemi, mi sono impegnata, ma non è bastato.
Prima ancora di notare i tatuaggi sul cranio rasato, il viso coperto di linee tribali e pieno di anelli, John aveva riconosciuto Alan, fuori luogo in quel paesaggio naturale come un ukulele sulla banchisa (pagina 46).
Ehm, un ukulele? Già, perché Antonin Varenne gioca a stupire, dai personaggi pieni di lividi ai suicidi strampalati, dal pappagallo maleducato alla mamma – puttana, e non per offendere, eh? – scomparsa ma sempre presente, come la moglie di Colombo, somiglianza rimarcata dal soprabito che il figlio, il tenente Guérin, indossa di continuo. I personaggi sono sfigati, i cattivi sono buoni corrotti, i buoni fanno la parte degli scemi, il ritmo della narrazione è lento come una messa cantata: Varenne, dal nome cavallino finché volete ma certo non avvezzo al galoppo, porta avanti la vicenda con calma olimpica.
Sveliamo brevemente la trama. Due parole devo spenderle, sennò l’ho letto per niente e questo mi darebbe maggior tristezza che l’essermelo spolpato in tre nottate tristi. Tristi, come il libro e i suoi suicidi. Un trama tenuta assieme con lo spago, la lentezza dei film francesi inframmezzata da un telefilm americano, come se la vostra tivù avesse un’interferenza.
Per la squadra francese gioca il tenente Guérin – col soprabito, le spalle strette da gnomo malato e il testone da Elephant Man – che si porta appresso un vice in tuta da ginnastica, lungo e coi piedoni da cucciolo d’alano. I due tizi si occupano della sezione suicidi. I morti sono tanti e Guérin cerca nelle loro dipartite un filo conduttore, una comunanza. A dire il vero, la cerca in ogni cosa: è una delle sue tante manie. Alcune lo fanno assomigliare al pappagallo che tiene in salotto, bestiaccia che dalla mamma di lui – brava donna, prostituta, ma nessuno è perfetto – e dalla clientela ha appreso le nefandezze peggiori. Non so voi, ma io, quando muovo i primi approcci a una lingua straniera, cerco sul dizionario le offese più bieche. Conoscerle fa sempre comodo. Ecco, io e Churchill, il pappagallo, potremmo intrattenere una piacevole conversazione. Lui si spenna con convinzione, ferendosi il corpicino, come Guérin, il tenente macrocefalo, si gratta la testona, procurandosi croste e aggiungendo cerotti a cerotti. Uno si aspetta che il tale non arrivi alla fine del libro, a dire il vero io me lo auguravo.
Per la squadra USA gioca John, di madre francese, che vive fuori dal mondo – boschetto in Francia, aria buona, rifugio da uomo delle caverne nel terreno della mamma, una hippy dalla erre arrotolata – e che vorrebbe restare lì in eterno a non combinare un accidente. Ah, no, lui tira con l’arco e se lo porterà anche a Parigi, quando sarà costretto ad andarci – macchina scassata, vestiti alla Marlboro Country – per riconoscere il cadavere di un vecchio amico. Uno che passava il tempo a bucherellarsi per bene il corpo: è l’Alan di cui Varenne parlava a pagina 46.
Alan è un ex militare diventato fachiro, gay, drogato e dalla frequentazioni poco raccomandabili. In quanto a turbe mentali va a braccetto con il tenente Guérin, il pappagallo, l’amico John e tutti quelli che verranno in seguito. Capisco sia un noir, ma anche nelle peggiori situazioni un tale che se la passa benino lo trovi. Parrebbe di scovarlo anche qui, quando John viene accolto nella casetta di un tale, ex carcerato e ora guardiano di un parco parigino. Sembrerebbe, ma non è così, né l’ex galeotto né il suo cane sono poi tanto contenti. Perché, si sappia, qui di minimamente felice non c’è nessuno, nemmeno io dopo aver letto il romanzo.
Ultimo accenno veloce al soprabito di Guérin: John – americano alla Baywatch e grande studioso dell’animo umano – ci stupisce facendoci sapere, ormai alla fine del romanzo, d’aver intuito che il tenente gira con l’orrendo soprabito perché apparteneva alla mamma. Questo mi ha lasciata perplessa, l’abbottonatura da donna la riconosco al volo, se John se n’è reso conto dopo duecento pagine, forse è il caso di mandarlo a un corso di taglio e cucito.