Pubblicato da matteotelara su febbraio 27, 2012
Non è facile parlare di un film muto senza avere l’impressione d’essere a fargli un torto. Verrebbe piuttosto voglia d’usare le braccia e i fianchi, di battersi le mani sulle cosce, scambiandosi occhiate come a dire ‘ecco qualcosa da andare a vedere, da andare a vedere al Cinema, nel silenzio degli sguardi di chi ci sta attorno.’ Ma soprattutto verrebbe voglia di riuscire a farlo come ha fatto Michel Hazanavicius in “The Artist”, trasgredendo un po’ di regole per riaffermarne di più importanti, e reinventando (nel nostro caso) un modo di recensire che sia insieme classico e improbabile, comprensibile e sorprendente, inaspettato e prevedibile.
La domanda che mi sono posto, prima di andare a vedere “The Artist”, è stata “è ancora possibile fare un film muto?” Quella a cui mi sono trovato a rispondere, una volta uscito dal cinema, è stata “è ancora possibile fare di un film muto un grande film?”
Abituati come siamo a un Cinema in crisi, che sta cambiando, che sta cercando nuovi sbocchi, quasi avesse esaurito l’iniziale abbrivio tecnologico-narrativo dei fratelli Lumiere & C, era facile rispondere con un secco no.
Contraddicendo invece il mio iniziale scetticismo, Michel Hazanavicius ha realizzato una piccola perla di bellezza in un fondale di ‘visto e rivisto’, e l’ha fatto raccontando la più ovvia delle trame col più defunto degli stili, e restituendoci infine, meravigliosamente intatta, la semplice magia del cinema.
Se è vero che un film muto nel 2012 si pone fin da subito come un’opera d’artificio, nella quale ogni pretesa di mimesis lascia il posto a una sorta d’ammissione d’inattualità, “The Artist” realizza l’impensabile, e più si procede nella sua visione più alla consapevolezza di trovarsi di fronte a un film muto si sostituisce quella di trovarsi di fronte a un film.
Un film come da tempo non se ne vedevano, in cui conta la capacità di far sognare più di quella di saper tener svegli, e dove si finisce comunque, anche senza volerlo, a credere nella verità di quanto ci viene mostrato.
È una storia di caduta e di rinascita (non ve la starò a raccontare, la conoscete tutti) che non può non far reinnamorare del mistero luminoso del cinema.
Non è forse un caso che due dei film più interessanti di questa fine 2011-inizio 2012 (“Hugo” e “The Artist”) facciano entrambi omaggio all’arte del raccontare storie per immagini (e ai suoi protagonisti), ovvero al cinema delle origini, un cinema che non è morto con l’avvento del sonoro e coi cambiamenti di gusto del pubblico (come invece è stato spesso detto) ma piuttosto si è trasformato, sopravvivendo alla maniera delle farfalle notturne: cambiando forma senza lasciarsi intaccare l’anima.
L’arrivo del sonoro segnò l’addio alla grande stagione del muto. Quello del colore mandò in pensione il bianco e nero. Oggi qualcosa è giunto a conclusione e qualcos’altro si sta muovendo, ma ho l’impressione che il tanto celebrato 3D, in cui molti vedono il futuro, sia solo un bossolo di passaggio, all’interno del quale sta maturando una nuova versione della farfalla.
Cosa ci riserverà questo secolo è difficile da prevedere (comunque ci proverò, nel prossimo articolo ci proverò) quello che è certo è che quando si riesce a mettere ‘vita’ in quello che si racconta, quello che ci viene restituito è sempre qualcosa di vivo. Che si usino le ombre o gli occhiali tridimensionali. Non so voi, ma ciò che cerco in una storia è lì.
Inutile aggiungere una sola parola.