Magazine Opinioni

Si riaccende la guerra dell’acqua tra Egitto ed Etiopia

Creato il 02 luglio 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
Print Friendly Version of this pagePrint Get a PDF version of this webpagePDF

di Maria Serra

egitto-etiopia-nilo
Con il taglio del nastro da parte del vice Premier Demeke Mekonnin, lo scorso 29 maggio l’Etiopia ha dato ufficialmente il via alla costruzione dell’imponente diga – la cosiddetta Grand Ethiopian Renaissance Dam o “Diga del Millennio”, appaltata all’italiana Salini Costruzioni – sul corso del Nilo Azzurro (che dovrebbe essere così deviata per 500 metri), nella regione occidentale del Benishangul-Gumuz, a 40 Km dal confine sudanese, riaprendo di fatto le tensioni con l’Egitto circa lo sfruttamento delle acque del fiume africano. Il Cairo, che in virtù dei trattati stabiliti in epoca coloniale e post-coloniale mantiene insieme con il Sudan il controllo del 90% delle acque del Nilo e che detiene il potere di veto sulle decisioni in materia di prelevamento dell’acqua del medesimo fiume, ha finora temuto un impoverimento delle risorse idriche e un sostanziale danno all’economia nazionale. A nulla sembrano essere serviti gli sforzi profusi negli ultimi anni – e specialmente nell’ultimo biennio con lo scopo di imprimere una svolta alla politica africana del Cairo – per impedire ai Paesi africani a monte del bacino del Nilo la ratifica del Nile Cooperative Framework Agreement (CFA) siglato nel 2010 ed evitare il conseguente aggravarsi di una crisi economica legata a doppio filo con l’instabilità politica.

nilebasin
La costruzione della diga da parte di Addis Abeba non è infatti un’azione “solitaria”, ma va inscritta nell’intesa raggiunta ad Entebbe (Uganda) – e nell’ambito del dialogo interregionale del Nile Basin Inititive (NBI) – tra Etiopia, Rwanda, Tanzania, Kenya, Uganda e Burundi (la cui approvazione ha aperto la strada alla ratifica e ha permesso l’inizio dei lavori), volta a formare una Commissione per gestire lo sfruttamento idrico del Nilo: l’obiettivo non è solo quello di superare gli accordi del 1929 e del 1959 secondo i quali all’Egitto spetta una prelazione di 55,5, miliardi di m3 di acqua e al Sudan 18,5 miliardi (lasciando agli altri Paesi solo il 6%), ma anche quello di abolire il potere di veto del Cairo e stabilire il criterio dell’unanimità per i progetti idrici che coinvolgono tutti gli Stati del bacino del Nilo. L’Etiopia, in particolare, è più di tutti interessata alla realizzazione dell’opera alla luce del fatto che, dal punto di vista energetico, è tra i Paesi più poveri al mondo: il progetto, dal costo totale di 4,8 miliardi di dollari in gran parte provenienti da capitali cinesi, lungo 1800 metri e alta 170 metri, prevedrebbe di fatto la formazione di un lago artificiale con un volume doppio e una superficie quadrupla rispetto al Lago Nasser (grande 6.000 Km2 e contenente tra i 150 e i 165 Km3 di acqua) – creato grazie alla diga di Assuan nel sud dell’Egitto – su cui costruire un impianto idroelettrico dalla capacità di 6.000 MW, un valore tre volte superiore all’intera potenza elettrica attualmente in servizio nel Paese. Tra l’altro poco meno di due anni fa l’Etiopia aveva inaugurato, grazie ai finanziamenti della Banca Mondiale, una diga idroelettrica, la Tana Beles; anche altre nazioni alle sorgenti del fiume, come l’Uganda che ha in corso la costruzione della diga di Bujagali Falls – alle sorgenti del Nilo Bianco, presso Jinja – e la Tanzania che ha in programma un pompaggio massiccio delle acque del Lago Vittoria, hanno avviato programmi simili con lo scopo di mettere a coltura 4,5 milioni di ettari di terra – sui quali abitano 400 milioni di persone (che dovrebbero raddoppiare entro il 2030) – nei prossimi 15 anni. Da qui si comprende il motivo per cui l’Egitto, territorio desertico al 98% e che, nonostante le cifre di prelazione, secondo il Ministro delle risorse idriche e dell’irrigazione Mohamed Bahaa Eddin avrebbe bisogno di ulteriori 7 milioni di metri cubi di acqua per poter sostenere la propria crescita e il proprio sviluppo, teme queste immense opere di sbarramento, deviazione e sfruttamento intensivo dell’acqua a monte (nonché i relativi progetti di investimento agricoli cinesi e arabi). Un problema aggravato dalla rapidità con cui l’acqua del Lago Nasser evapora e dalle infrastrutture create negli anni Novanta (come il Canale di Al Salam) che, passando sotto il Canale di Suez, trasportano importanti flussi d’acqua da un ramo del delta verso est, verso la Penisola del Sinai. Un ulteriore motivo di attrito, questo, tra Egitto ed Etiopia la quale accusa lo Stato nordafricano di utilizzare le risorse provenienti dall’area sub-sahariana per i propri interessi o, ancora, di lavorare anche strategicamente contro l’Etiopia finanziando (insieme con Iran e Libia) le milizie islamiche degli al-Shaabab in Somalia.

In questo contesto si inserisce anche l’atteggiamento di Israele, che già alla fine degli anni Settanta, e dopo gli accordi di Camp David, non nascose l’intenzione di portare l’acqua dal Sinai al deserto del Negev. Il progetto non fu mai realmente attuato poiché il Premier israeliano Begin rifiutò qualsiasi concessione su Gerusalemme, ma l’obiettivo non è mai stato abbandonato: oltre alle numerose trattative diplomatiche con Mubarak, Tel Aviv ha tentato di accrescere la propria influenza sugli altri Paesi del Nilo affinché approvassero criteri di spartizione delle acque che comprendessero anche Israele e, nel far ciò, ha finanziato il governo etiope nella costruzione di progetti di sfruttamento del Nilo Azzurro o, ancora, ha sostenuto le forze secessioniste del Sud Sudan a danno di Khartoum. Sudan che, secondo alcuni stralci di Wikileaks del 2010 – smentiti dal Cairo – avrebbe dovuto costituire una base da cui far partire le forze aeree egiziane per distruggere la diga. Secondo tali fonti (che si baserebbero su informazioni provenienti dall’agenzia privata d’intelligence Stratfor), se gli sforzi diplomatici per ridisegnare o sospendere il progetto fossero falliti, e sempre se la diga una volta completata interrompa in modo grave il decorso del fiume, il passaggio successivo sarebbe supportare un conflitto grazie al sostegno di Khartoum e, come si diceva precedentemente, dei militanti anti-etiopici.

E in effetti, l’ultimo fattore di preoccupazione per il Cairo è rappresentato dall’unità territoriale del Sudan e dalla nascita del Sud Sudan nel luglio del 2011: poiché oltre il 20% delle acque del fiume arrivano in territorio egiziano da questa regione, è naturale che la strategia politica dell’Egitto sia stata indirizzata a favorire l’unità del più grande Stato africano. La decisione di Juba di aderire in marzo alla Nile Basin Initiative – rifiutando così l’accordo del 1959 in quanto stipulato da Khartoum come giustificato dal Ministro sudsudanese per le Risorse idriche e l’Irrigazione Paul Mayom – non solo ha vanificato i progetti del Cairo nella regione meridionale con lo scopo di mantenere il Sud Sudan nella propria orbita (significativi in tal senso furono la costruzione di un laboratorio a Juba per l’analisi della qualità idrica, un porto a Wau per il monitoraggio dei livelli dell’acqua, la creazione di pozzi che distribuissero acqua pulita nelle province del sud), ma ha anche lasciato aperta la questione relativa al Canale di Jonglei, fortemente voluto dall’Egitto, ma la cui costruzione è stata interrotta nel 1983 a seguito dello scoppio della guerra civile per ridurre le perdite d’acqua dovute all’evaporazione nella regione paludosa del Sudd. L’indipendenza del Sud Sudan per l’Egitto non si è posta solo in termini economici e di sviluppo territoriale, ma anche politici a causa del fatto che l’Egitto si è fermamente opposto all’Autorità Intergovernativa sullo Sviluppo (IGAD), che riunisce i Paesi dell’Africa Orientale e che ha sostenuto Juba nel proprio processo di autodeterminazione.

Ecco dunque che nonostante pochi giorni prima dell’avvio dei lavori il Cairo e Addis Abeba si fossero accordati sulla “necessità di proseguire nelle attività di coordinamento per la questione del Nilo Azzurro, impegnandosi a non danneggiarsi vicendevolmente” e nonostante il Primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn, al summit dell’Unione Africana degli scorsi 26 e 27 maggio avesse rassicurato Mursi (che peraltro aveva scelto la capitale etiope come meta delle sue prime uscite ufficiali) che non vi sarebbe alcuna intenzione di violare i diritti dei due maggiori sfruttatori delle risorse idriche, le polemiche non sono tardate ad arrivare e, anzi, hanno spinto il Presidente egiziano addirittura ad asserire che il suo Paese non permetterà che la parte del Nilo sul suo territorio venga minacciata “neanche di una goccia” e che “occorre adottare delle misure che garantiscano la protezione della sicurezza idrica dell’Egitto”, non escludendo peraltro possibili opzioni armate. Una retorica, questa, che pare tuttavia essere strumentale a distrarre l’opinione pubblica dai correnti problemi politici ed economici. A ben vedere, infatti, per quanto sia incontrovertibile il fatto che il progetto etiope provocherà un calo del bacino davanti alla diga di Assuan di 44 miliardi di metri cubi entro quattro anni (il 37% in meno dell’attuale) con ripercussioni innanzitutto sul piano del soddisfacimento della crescente domanda di cibo, i problemi non sono solo a monte della diga ma anche a valle in virtù della persistenza di sistemi di irrigazione tanto antiquati quanto inefficienti che mettono a rischio il sistema di cultura cerealicola da cui l’Egitto largamente dipende. Se la politica economica etiope – sempre più basata sulla diversificazione energetica e sulla volontà di soppiantare la produzione del caffè come principale risorsa di produttività – sembra più lungimirante, l’Egitto rischia di restare ostaggio dell’idea di un fiume come solo fonte di profitto fine a se stesso e non anche di sviluppo armonico nazionale e, dunque, anche di vita.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

Share on Tumblr

Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :