Si scrive I, Frankenstein, si legge Underworld: la recensione

Creato il 24 gennaio 2014 da Oggialcinemanet @oggialcinema

24 gennaio 2014 • Recensioni Film, Vetrina Cinema •

Summary:

“Un corpo che non ha anima”. Così viene più volte definita la Creatura (lo abbiamo sempre chiamato così, ma qui lo chiamano Adam, come il primo uomo) del Dr. Frankenstein nei dialoghi di I, Frankenstein, il film che si propone di rinverdire uno dei miti più forti del cinema horror. Un’operazione non facile: la Creatura è rimasta impressa nell’immaginario collettivo con il volto di Boris Karloff – cicatrici, fronte alta e bulloni conficcati nelle tempie – il primo, storico, interprete del classico della Universal del 1931. Agli altri “Frankenstein” quasi mai è andata bene, compreso l’adattamento di Kenneth Branagh del 1994 (Frankenstein di Mary Shelley) che vedeva addirittura Robert De Niro nelle sembianze della Creatura. A meno che non si trattasse di altre storie e altri toni, vedi la storica parodia di Mel Brooks, Frankenstein Jr.

Aaron Eckhart in I, Frankenstein

E in un certo senso è quello che vuole fare questo I, Frankenstein: scordatevi l’ambizione e l’esperimento dello scienziato, la creatura che prende vita, e anche i bulloni alle tempie. Questo film inizia dove gli altri finiscono, con la ribellione della Creatura e la morte del Dr. Victor Frankenstein: tutto risolto in pochi minuti di prologo. Dopo il quale vediamo il nostro eroe, ancora vivo dopo duecento anni, muoversi ai giorni nostri ed entrare nella guerra in atto da secoli tra Demoni e Gargoyle (creature fatte di luce che devono l’ispirazione al Gobbo di Notre-Dame). Insomma, è una storia nuova, che cerca di attualizzare il mito di Frankestein inserendolo in un plot che ricorda molto quello di Underworld. Non è un caso: i produttori sono gli stessi – la Lakeshore – ed è lo stesso anche il co-sceneggiatore Kevin Grevioux, autore della graphic novel da cui è tratto il film, che aveva scritto anche la graphic novel di Underworld.

In questo modo Frankenstein esce dall’horror ed entra nell’action e nel fantasy. Adam, il protagonista, diventa una sorta di detective contemporaneo da noir, in cappotto, felpa e guanti di pelle, si batte con le arti marziali, e tutte le creature intorno a lui se le danno di santa ragione, inseriti in un’estetica vicina al videogame. Così, andando a ritmi così veloci, si perde però tutta l’atmosfera e la magia dei vecchi horror. Rimane davvero poco dei discorsi etici alla base del romanzo di Mary Shelley, del mito di Prometeo. E anche della paura, perché, come detto, siamo in un altro genere cinematografico e in un altro film: occupati a seguire la velocità dell’azione, non abbiamo tempo di spaventarci. Né di soffrire per la Creatura. Con cui l’empatia non scatta mai come dovrebbe.

Ma anche a considerare I, Frankenstein come un prodotto a se stante, e a non voler fare confronti con la materia originale, il film dell’esordiente Stuart Beattie non convince. Se il restyling della Creatura è interessante e Aaron Eckhart, scelto come protagonista (è la prima Creatura che si può definire attraente), è intenso il giusto, intorno a lui si muove un cast poco convinto (neanche Miranda Otto e Bill Nighy riescono a dare il meglio) e una sarabanda di effetti speciali non all’altezza delle migliori produzioni (dove sono soprattutto i personaggi digitali a essere goffi). Lo stesso Underworld, che possiamo considerare il vero archetipo di questo film, aveva un look e una tensione narrativa migliori. Il risultato è un film indeciso su cosa vuole essere, “un corpo senza anima” come la Creatura che racconta. Per quanto riguarda gli appassionati di cinema horror, è il caso di dire che non ci sono più i mostri di una volta. Ci hanno cambiato (più volte) i vampiri, i licantropi, gli zombi, l’uomo invisibile e adesso anche Frankenstein. Cosa ci rimane?

Di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net

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