[Articolo pubblicato sulla Webzine Sul Romanzo n. 4/2013, La forza della memoria]
Complici le tecniche adoperate da
James Joyce in Irlanda, Marcel Proust in Francia e
Italo Svevo in Italia,
Virginia Woolf ha avuto il grande merito di dissolvere le strutture tradizionali del romanzo, concentrandosi sulla vita interiore dei personaggi, a discapito della trama e degli eventi esterni. Attraverso l’uso del flusso di coscienza (
stream of consciousness) la scrittrice inglese ha eliminato la forma comune del dialogo diretto, facendo ricorso al monologo interiore indiretto, in cui il narratore parla al lettore – con l’ausilio della terza persona –, confondendosi col personaggio che parla a se stesso. Woolf non rinnega la realtà, ma la sottopone a un processo d’interiorizzazione. La narrazione procede attraverso continui spostamenti in avanti e all’indietro nel tempo e si sbriciola in associazioni di idee che si dipanano su una trama esile. Tutto si concentra sui processi mentali dei personaggi: è il tempo della coscienza a essere in primo piano. Il pensiero vaga liberamente tra i ricordi, e le riflessioni ostacolano il procedere regolare dell’azione. Non vi è mai obiettività nel ricordo. I ricordi sono come li vogliamo ricordare. La memoria è una lente di ingrandimento che sfoca, rimpicciolisce, ridisegna il nostro vissuto. Allo stesso tempo, però, è il ricordo che ci restituisce il nostro percorso, la nostra storia e la misura del nostro agire. Il flusso di coscienza dà sfogo al libero arbitrio della memoria, al suo procedere a tentoni, per associazioni di idee. Non è la tirannide dell’io né l’autoreferenzialità dell’ego. È, piuttosto, il tentativo di rendere, attraverso la narrazione, l’incedere psichico dei personaggi, e la lingua rispecchia, in un mimetismo ardito che talora abolisce la sintassi e la punteggiatura, l’urgenza psicologica di ciascun personaggio, in una continua osmosi tra psiche e linguaggio. I registri linguistici variano e, in alcuni casi, si presentano particolarmente raffinati e ricercati, financo lirici, ricchi di similitudini, metafore, assonanze e allitterazioni.
Come l’Ulisse di Joyce è la storia di una giornata di giugno del 1904, così La signora Dalloway di Virginia Woolf è la storia di un mercoledì di giugno del 1923. In questo romanzo, pubblicato nel 1925, Woolf narra la giornata di Clarissa Dalloway, che la sera deve dare una festa. Siamo a Londra e la guerra è finita da pochi anni. È una calda giornata di quasi estate. Racchiuso, quindi, nello spazio di una giornata e di una città, il libro è tutto giocato su una compenetrazione incessante di realtà esteriore e moti interiori dell’animo, di presente e di passato. C’è la presenza ben precisa della città: una Londra dai connotati tutti visibili e riconoscibili, nomi e suoni di vie, spazi nei parchi, interni di case e di negozi, il frastuono delle macchine e gli ingorghi del traffico.
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