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Siamo tutti Pulcinella?
"La maschera non si toglie, al più si alza" diceva Eduardo De Filippo
Ma il titolo trovato sul Corriere del 12 febbraio scorso è:
Un Carnevale senza Arlecchino
Così spariscono le vecchie maschere
(è un articolo di Armando Torno)
C'è un appello di Pupi Mazzucco, anima intramontabile del teatro dei burattini, già autore di Macario. È dedicato alle maschere storiche italiane. Stanno sparendo. Chi riconosce Gianduja di Torino o il Marchese di Genova? Per capire chi sia Meneghino di Milano o Stenterello di Firenze in troppi cercano la soluzione sul computer.
(...)
Resistono all'anonimato, forse perché si sono rifugiati nell'immaginario collettivo, Arlecchino e Pulcinella. Probabilmente devono la loro salvezza ai costumi politici attuali (sia chiaro: non solo italiani!). C'è sempre un'occasione per ricordarli. Ma la cultura popolare è in agonia; anzi, forse ha già tirato le cuoia. Conclusione? Non c'è più il Carnevale di una volta.
Le "nostre" maschere
Eppure le maschere realizzarono, esasperando tendenze e desideri sino alla comicità, l'unico vero federalismo che abbia conosciuto il Belpaese: quello dei costumi. Siamo diversi nelle apparenze, ma ridiamo e godiamo alla stessa maniera.
E ridere - lo sottolineava un filosofo come Henri Bergson - è utile per mettere sotto controllo i difetti. Le maschere delle tradizioni svolgevano questa funzione nell'intero Paese, raccogliendo lazzi e frizzi all'ombra di ogni campanile. Ma probabilmente anche la comicità ha cambiato natura, aiutata prima dalla televisione e poi dalla rete. E oggi si ride per motivi che sino a non molto tempo fa avrebbero fatto piangere.
Dove sono finite le nostre maschere? I negozi, giustamente, si adeguano alle richieste. Se nessuno desidera indossare le sembianze del bolognese Balanzone, con il suo latino maccheronico e le citazioni dotte e strampalate, ne fanno a meno. Offrono quelle strillate dai video del momento o le cinesi che, a prezzi stracciati, scimmiottano i tratti del capitano Schettino o di qualche signorina di larghe vedute morali che ha reso effervescenti le cronache politiche del precedente governo italiano. I loro profili si ritrovano nelle sfilate dei carri di Carnevale, organizzate solo per motivi turistici. Per ridere - ammettiamolo - la fantasia desidera faticare sempre meno. Forse è stanca. O demotivata.
Eppure la maschera - dal latino medievale mascha - è il finto volto che si indossava per liberarsi dalle convenzioni. Il Carnevale era il giorno in cui, scherzando, si potevano almeno proferire alcune verità. In tempi recenti questo travestimento del viso si è rivelato superfluo.
Più o meno un secolo fa, al tempo di Luigi Pirandello, maschere veneziane come Pantalone o Colombina e tante altre cominciarono a ritirarsi lentamente incalzate da una dilagante "crisi dell'io". Sono rimaste ancora per decenni nei negozi, nei giorni di Carnevale, ma hanno smesso di riflettere la società che le aveva generate. L'uomo - notò proprio Pirandello - non può capire gli altri, meno che mai se stesso: ognuno vive portando - consapevolmente o no - appunto una maschera. Se la tiene fissa, ogni giorno dell'anno, e dietro essa si muovono innumerevoli personalità diverse e inconoscibili.
Arlecchino
L'appello di Pupi Mazzucco, raccolto dalle cronache de «Il Secolo XIX» di ieri, per rivalutare le tradizioni del Carnevale, è un atto eroico in un mondo dove contano soltanto bilanci e comunicazione. Pulcinella, che si inchina a destra e a sinistra, da oltre due millenni mostra l'indole del servo: per questo ha ancora spazio per esibirsi. (...)
Arlecchino, invece, pur avendo in tempi recenti interpreti quali Marcello Moretti o Ferruccio Soleri (quest'ultimo ne veste i panni da mezzo secolo), si è moltiplicato come i pezzi del suo abito. È finito dappertutto. Frequenta ancora il Carnevale? Per ora è presente anche nei laboratori.
(...)
Senza dimenticare che Arlecchino è un po' sciocco. E un po' demoniaco.
Armando Torno
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