Ve l’ho raccontato, mi sembra, quando ero appena tornata dal Salone del Libro. Che c’era questa strana cosa, durante l’incontro in cui Paolo Cognetti presentava Il ragazzo selvatico, ossia che era come se in quella piccola stanzetta in cui avveniva l’incontro, una stanzetta davvero piccola, separata da tutto il resto da appena una porta di vetro, trasparente, oltre la quale si poteva vedere il viavai di così tante persone, ecco, lì era come se si fosse creata una sorta di mini oasi di tranquillità.
Una pacatezza inattesa all’interno di una fiera esuberante, spesso chiassosa.
C’erano parole e ricordi di montagna e natura e soprattutto di se stessi. C’era la presentazione di questo volume, Il ragazzo selvatico, che è il racconto di mesi vissuti in montagna da Paolo Cognetti.
Leggere il libro, dopo, è stato un desiderio molto forte.
E anche il libro ha questo potere: la capacità, in mezzo alla folla, in mezzo al viavai della città e della quotidianità, ai frastuoni più o meno lontani della strada, di farti sentire un po‘ lontano. Risveglia sensazioni antiche ed emozioni e desideri nudi, questo… “quaderno di montagna”. Non romanzo, no. Non posso chiamarlo “romanzo”, perché Il ragazzo selvatico è in realtà un diario, un racconto di se stessi.
Autobiografico. In Più lontano ancora Jonathan Franzen scrive che il romanzo “deve essere una lotta personale, uno scontro diretto e assoluto con la storia della vita dell’autore”. E allora, se scrivere un romanzo significa fare i conti con se stessi, scrivere di sè è togliersi anche ogni ultimo artificio, superare ogni vergogna e baluardo. Una cosa difficile.
E infatti, Il ragazzo selvatico è un racconto di sè anche quando non sembra: anche quando cerca immagini fuori dalla finestra, quando si anima in descrizioni della natura che circonda, quando scava nella storia della montagna, quando cerca compagnia nelle pagine dei romanzi altrui. E’ sempre un racconto di sè.
Lo cito, Più lontano ancora, perché Paolo Cognetti che, in un momento di crisi, di insofferenza, di difficoltà, di assenza di scrittura, decide di allontanarsi e mettersi in discussioni a duemila metri d’altezza, mi ricorda Jonathan Franzen nel secondo brano di questa raccolta, in cui racconta il suo bisogno di allontanarsi da tutto, dopo la fatica di un romanzo, la morte di un caro amico (David Foster Wallace), e di come si sia quasi esiliato su un’isola inospitale, da solo.
Eppure c’è una differenza fondamentale che ho trovato: se Franzen racconta di una ricerca di solitudine molto forte, Il ragazzo selvatico mi sembra invece una forte di ricerca di amici, compagni, di maestri.
Di legami, invece che pura solitudine o rifiuto del mondo. No, non v’è alcun rifiuto del mondo, anzi!, è una ricerca del mondo. Un aprire gli occhi. Nei libri, (Rigoni Stern, Levi, De Andrè, Thoreau… presenze costanti nelle pagine di Cognetti), e con le persone che vivono la montagna, con gli animali che la abitano. Persino con gli oggetti, le case, il passaggio dell’uomo sulla natura.
Sulla quarta di copertina di Il ragazzo selvatico c’è questa frase, “un viaggio per ritrovare se stessi”, che è una frase che in realtà non m’è mai piaciuta, un po’ perché i luoghi comuni a un certo punto arrivano a significare niente, ma soprattutto perché è una frase che lascia intendere che poi arrivi a un certo punto, in cui ti sei trovato, e che ti dici, allora? “Ciao, eccoti. Ti ho trovato. Bene, ora sono a posto. Ho fatto.”? Ti sei trovato e sei a posto per sempre?
A me è sempre parso che più che ritrovarsi sia importante mettersi alla ricerca. Porsi delle domande.
Mentre leggevo pensavo a questo: a come alla fine la montagna non sia che un mezzo. O, come Franzen, allontanarsi in un’isola inospitale non sia che un pretesto per dirsi “sto cercando”. “Ho bisogno di mettere in pausa e pensare”. “Ho insoddisfazioni”.
E come non tutti abbiamo la possibilità di lasciare tutto per mesi e allontanarci a migliaia di metri d’altitudine, da soli, per vivere un’esperienza molto maschile, spartana. Magari non ne abbiamo nemmen l’inclinazione.
E allora ognuno può cercare la sua “montagna”, che altro non è la ricerca di una sincerità con se stessi. E può cercare un luogo genuino, i silenzi, la sofferenza delle domande, i legami rispettosi e di valore, anche nella propria quotidianità. Fermandosi, anche solo un attimo. Non chiudendo gli occhi, ma guardando oltre la finestra.
Paolo Cognetti ha intrapreso la propria esperienza di montagna dopo aver letto racconti di esperienze di solitudine e natura (Nelle terre estreme di Krakauer tra tutti), testimonianza di come i libri possano davvero influenzare e cambiare la vita. E se possono farlo, allora qualcuno – tipo me – può trovare la propria montagna in una domenica mattina trascorsa in un prato, nel silenzio, leggendo parole altrui, leggendo un diario bellissimo e pieno della vita. Il ragazzo selvatico.
E ponendomi, continuamente, domande.
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Il ragazzo selvatico
- quaderno di montagna
Paolo Cognetti
Terre di mezzo Editore
2013
104 pagine
12 euro
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Paginestrappate da Il ragazzo selvatico: qui.