di Michele Lupo
Nemmeno essere dentro e in prima fila nella «scuola di Buenos Aires» e dei «cuentistas», gli scrittori di racconti fantastici che di tanto prestigio hanno goduto in Europa, ha fatto crescere più di tanto l’apprezzamento di Silvina Ocampo fuori dalla cerchia ristretta di pochi cultori forse non meno eccentrici di lei. Né, ogni volta che se n’è scritto o parlato, si è riusciti a evitare il riferimento alle sue prestigiose e ingombranti parentele, dalla sorella Victoria al marito Adolfo Bioy Casares, autentiche star della letteratura argentina del secolo scorso – per non dire dell’amicizia con Calvino, Wilcock o De Chirico di cui fu allieva pittrice. Ancora, assieme al marito e a Borges, la Ocampo realizzò la celebre Antologia della letteratura fantastica. Forse questa singolare scrittrice, capace di visioni strambe ed ellittiche ma spesso infallibili, avrebbe meritato uno spazio nel pantheon letterario meno incerto e sospettoso di quello che le è toccato in sorte.
La scrittura di Ocampo (pittrice più che potenziale…) è una festa per gli occhi, spesso le sue scene sono piene di dettagli, di vere e proprie collisioni visive che di colpo si risolvono – e certo Borges c’entra – in un esito metafisico improvviso e imprevisto.
Rispetto alla voga sudamericana che avvinse molti lettori italiani alcuni decenni fa, nell’arte di Silvina Ocampo, almeno in alcuni dei racconti qui presenti, vi è però qualcosa che in parte spiega la mancanza di un pubblico numeroso. A volte v’è un che di eccessivamente concettoso, una certa freddezza quand’anche non priva di sinistra amabilità, che mentre decifra e misura la distanza fra le persone, specie fra gli adulti e i bambini (filo conduttore di questi racconti), di fatto impegna il lettore su un piano che non è quello dell’empatia con i personaggi – spesso le loro azioni disorientano, i bambini di questa raccolta essendo imprevedibili, appunto innocentemente crudeli.
Così possono disorientare le scelte stilistiche della scrittrice, specie per i lettori frettolosi di oggi. Non aiuta il compiacimento intellettualistico per uno humor raffinato quanto elusivo, che rende problematica la partecipazione alla già misteriosa crudeltà dei bambini. Essa sembra provenire da un mondo altro, in una versione peculiare di un fantastico a noi prossimo, più sinistro che magico, di ragazzini beffardi pronti a creare effetti di realtà in alcuni casi illuminata di una luce nuova e mai vista prima; la condensazione delle immagini permette di esplorare microuniversi della coscienza vertiginosi, ma altre volte invece queste storie non sfuggono all’impressione di una eccessiva preoccupazione stilistica in cui le cose si perdono nell’ordito dell’artificio letterario.
I racconti sono quasi sempre molto brevi, di diseguale valore e costante enigmaticità. Come, è spesso stato notato, la personalità della scrittrice porteña. Però vale la pena di leggerli.