Silvio e l’arte della fi(u)ga. Pierfy Casini e la teoria dipietresca del “moscone verde”
Creato il 11 settembre 2011 da Massimoconsorti
@massimoconsorti
Sbruffoncellando come un adolescente allupato che cerca d'acchiappà, SuperSilvio aveva detto ai teen-ager del Pdl riuniti a Roma: “Io non temo nessuno. I giudici mi fanno una pippa. Non ho paura né di essere interrogato né, per una volta, di fare la vittima”. Detto, fatto. Dopo aver fissato per martedì prossimo, a Palazzo Chigi, l’appuntamento con i giudici di Napoli ansiosi di ascoltarlo sul caso Tarantini-Lavitola, Silvio ha telefonato a Barroso e gli ha detto: “Joselito carissimo, che fai martedì, lavori? Io avrei una giornata libera, perché non ci vediamo a Strasburgo che ti racconto l’ultima sulla Merkel e Kunta Kinte”? Il risultato è stato che, a stretto giro di posta, i giudici partenopei hanno ricevuto la ferale notizia che l’incontro tanto atteso non ci sarebbe stato. Laconico il commento di Giovandomenico Lepore, capo della procura della repubblica di Napoli: “Il premier deve andare a Strasburgo? Buon viaggio, lo ascolteremo un’altra volta”. Dei pm di Napoli Silvio ha una fifa blu. Al contrario di quelli di Milano, che conosce ormai come le sue tasche, e che se potesse incenerirebbe con una lancia termica, quelli di Napoli per lui rappresentano un’incognita. In attesa che gli ispettori prontamente inviati dal neo ministro della Giustizia Nitto Palma (su sollecitazione dei deputati del Pdl), compiano il loro lavoro e gli sottopongano i dossier predisposti all’uopo sui pm, Silvio ha deciso che la soluzione migliore fosse quella di scappare. Non potendo andare per ovvie ragioni in Libia, stando ancora in ferie l’amicone Putin, Silvio ha pensato che la madre di tutte le idee fosse quella di trascorrere ventiquatto ore a Strasburgo in compagnia di Josè Manuel Barroso, il presidente della Commissione Europea che è l’unico politico al mondo che ride ancora alle sue barzellette. La tattica di Silvio è sempre la stessa, prendere tempo. Lui rinvia, temporeggia, dimentica a casa i quaderni, i libri, la stilografica, il compasso, i pastelli, i pennarelli e perfino il libretto delle giustificazioni che avrebbe voluto firmarsi da solo ma gli hanno fatto capire che sarebbe stato troppo. Da buon galoppino cresciuto all’ombra del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), Berlusconi ha capito che in alcuni momenti è utile fare lo gnorri perché non si sa mai quello che potrebbe accadere nelle prossime ore. Magari a qualche suo parlamentare-legale potrebbe venire in mente di predisporre un decreto sui tempi di prescrizione degli interrogatori o, nel caso specifico, di vietare al presidente del consiglio di rispondere ai giudici. Il fatto è che non ha alcuna intenzione di spiegare ai magistrati perché ha detto a Lavitola di restarsene all’estero e, soprattutto, perché non vuole che escano le intercettazioni fra lui medesimo di persona personalmente e Gianpi Tarantini sulle signore della Bari “bene”. Forse la ragione si sa, forse non solo la sua immagine, ormai sputtanata in tutto il mondo, ne uscirebbe a pezzi, ma anche il fatto che pagava Tarantini per “servizi” e non per “ricatti”. Ma mentre un servizio reso a un utilizzatore finale non è penalmente perseguibile se non per la blanda accusa di induzione alla prostituzione, il ricatto sì, è un reato grave, e la possibilità che vengano fuori le causali del ricatto è l’aspetto che turba maggiormente i sonni del premier. E proprio mentre sembra che Silvio stia ormai esalando gli ultimi respiri della sua vita politica arriva, puntuale come un treno giapponese prima di Fukushima, il salvagente lanciato da Pierferdinando Casini, l’uomo in grisaglia, buono, anzi ottimo, per tutte le stagioni. Pensiamoci, per un momento, all’abilità diabolica del Cocorito di Forlani. Ha atteso con una pazienza da frate certosino, che il cadavere (politico) di Silvio galleggiasse sul fiume. Lui era fermo, immobile, in preghiera sulla riva. Seduto su un finto masso di gommapiuma, ha atteso per tre lunghissimi anni che passasse da quelle parti. Agonizzante, con in volto i chiari segni dell’annegamento, ecco che all’improvviso si è materializzato il corpo di Berlusconi, vestito sempre da Caraceni. Pierfy si alza, lo guarda, gli sorride e gli tende la mano proprio come un boy scout alle prese con la sua buona azione quotidiana, pena l’espulsione dal corpo dei lupetti. “Vieni fratello – gli dice Pierferdinando – ti salvo io”. La ciambella di salvataggio, il Pierfy, figlio politico adottivo di sua eminenz Camillo Ruini, l’ha lanciata ieri a Silvio da Chianciano, dove si era recato con le cariatidi dell’Udc a passare un po’ le acque. “In questo momento solenne segnato dal destino – ha urlato sommessamente il Pierfy dal palco – occorre che tutti gli uomini di buona volontà, dal Pdl al Pd, si diano una regolata e aiutino Silvio a traghettare un paese allo stremo verso lidi più tranquilli. Occorre che i popoli e le genti si incontrino, che a moltiplicare i pani e i pesci ci pensa Silvio che porterà pure il pallone. All’Italia serve una grande coalizione che la tiri fuori dai guai e che non può prescindere dalle doti di statista ormai acclarate del mio compagno di merende”. Apparentemente, la sortita oratoria di Casini potrebbe sembrare una proposta politica tendente al bene supremo del paese ma, sapendo esattamente con chi ha a che fare, l’amico fraterno di Totò Cuffaro si aspetta nella prossime ore un’offerta allettante e soprattutto molto alta. Non a torto. Gli uomini del Pdl stanno seriamente pensando di offrirgli su un piatto d’argento il Quirinale. Pierfy Casini presidente della Repubblica dopo Giorgio Napolitano, è una proposta alla quale difficilmente il leader del partito dei cattolici moderati potrà dire di no, sarebbe il coronamento di una carriera trascorsa a speculare sulle disgrazie degli altri. Un po’ iena e un po’ sciacallo, il Pierfy potrebbe finalmente raccogliere il frutto di una vita trascorsa a vedere gli altri lavorare, un presidente della repubblica senza pedigree, senza storia, senza un passato degno di essere raccontato ai figli e ai nipoti. Qualche tempo fa, l’onorevole Antonio Di Pietro paragonò Casini (poi toccò a Rutelli) al moscone verde dei campi di Montenero. La spiegazione della comparazione la diede lo stesso Di Pietro: “Ce l’ha presente il moscone verde, quello grosso che si vede in campagna, che ronza vicino agli animali? Questo moscone, verdastro, di solito si infila sotto la coda del mulo. Quello cammina e il moscone non fa nessuna fatica poi, all’ultimo momento, quando il mulo sta per arrivare, quello zompa, così il moscone arriva sempre prima”. Volendo tradurre: Casini è come il moscone. Resta attaccato senza alcuna fatica a chi lo trasporta e poi, quando arriva il momento di tagliare il traguardo, spicca un salto e vince...il Quirinale.
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