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Simon Rumley dirigerà una storia vera, tra pena di morte e fantasmi

Creato il 16 gennaio 2014 da Fascinationcinema

rumley

Simon Rumley, regista britannico classe 1970, è tra i nomi più interessanti di una generazione di registi UK, la medesima di Shane Meadows, per intenderci, che si pone a cavallo tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000. Il cinema di Rumley è difficilmente etichettabili  estremamente eclettico e inevitabilmente disturbante: spesso identificato come horror, è in realtà del tutto trasversale nel mostrare l’orrore nel senso tragico del termine, misto al dramma, e calato nel reale. Esordisce nel lungometraggio con Strong language (2000), lucida e già personale istantanea su un gruppo di giovani londinesi, al quale seguono The truth game (2001), ritratto impietoso di un “gruppo di amici in un interno” e Club Le Monde (2002), ambientato in un locale londinese durante una nottata nel 1993: 32 personaggi in un microcosmo folle e variegato, al ritmo di una colonna sonora d’epoca, flashback generazionale straniante e mai banale. Il suo film d’esordio gli era valso due nominations ai British Independent Film Awards – miglior giovane promessa in ogni settore e miglior film nel sfruttare al massimo un budget basso – e in patria era già considerato tra i nuovi nomi più promettenti. Ma è col film successivo, The living and the dead (2006) che per Rumley arriva il primo grande passo fuori dai confini britannici: bellissimo e straniante, storia di malattia mentale e fisica che disorienta e affascina lo spettatore, parzialmente autobiografica dunque dolorosamente sentita, fa il giro del mondo nei festival internazionali, meritandosi un buon numero di nominations e tre premi, tra cui il podio nella sezione Nuove Visioni al Sitges Film Festival. The living and the dead riesce a esporre sia la poetica del regista che la sua cifra stilistica, rendendolo per molti versi il suo film manifesto, nonostante la consacrazione definitiva arrivi nel 2010 con Red white and blue, la sua pellicola a oggi più conosciuta e amata dal pubblico di appassionati. Rumley esce definitavmente dallo status di autore “Uk Only”, in quanto l’opera è una co-produzione tra USA e Gran Bretagna: fa incetta di premi ai Fangoria Chainsaw Awards, vince al Fant-Asia Film Festival e al Boston Underground Festival. Interpretato da Amanda Fuller (Grey’s Anatomy), John Michael Davis (presente anche nell’imminente The last word) e soprattutto Noah Taylor (E morì con un felafel in mano, Shine, La proposta), Red white and blue si ispira all’omonimo brano di Lynyrd Skynyrd per macchiare di sangue la bandiera americana, tornando a narrarci, come nell’opera precedente, di malattia, violenza e dolore.

Altro capitolo notevole nella filmografia di Rumley è il suo segmento nel film collettivo Little deaths (2011), il morboso Bitch, che è indubbiamente la punta più alta dell’antologia (nonostante la presenza del notevole Mutant Tool di Andrew Parkinson), storia di una coppia non proprio ordinaria. Meno convincente è la sua partecipazione al torrenziale The Abc’s of death (2012), in cui P is for Pressure si rivela piuttosto debole e inconcludente. Con il suo prossimo lavoro, ora in fase di post-produzione, The last word, in uscita quest’anno (ancora non vi è una data definitiva), Rumley potrebbe tornare a regalarci una delle gemme a cui ci ha abituati: per la prima volta si affaccia al sovrannaturale, prendendo però sempre spunto dalla realtà. Il film, infatti, si basa sulla vicenda di Johnny Frank Garrett, un uomo con problemi mentali condannato a morte in Texas nel 1992 con l’accusa di aver violentato e ucciso una suora di 76 anni, Tadea Benz, durante la notte di Halloween del 1981, quando Garrett era appena 17enne. Alcuni anni dopo, si scoprì che era stato messo a morte un innocente: fu catturato il vero colpevole, Leoncio Perez Rueda. La vicenda è già stata portata sullo schermo nel 2008 dal bellissimo e scioccante documentario dal medesimo titolo, diretto da Jesse Quackenbush, che svelò i retroscena di quello che fu un di processo-trappola: l’ossessione texana per la pena di morte, la sete di vendetta dell’opinione pubblica, un avvocato difensore da quattro soldi, una confessione fatta firmare a Garrett con l’inganno, approfittandosi così del suo ritardo mentale.

 

johnny frank garrett

Johnny Frank Garrett

La vicenda del giovane (che non smise mai di proclamare la propria innocenza) continuò a far parlare di sé sia per l’ultima dichiarazione che rilasciò : “I’d like to thank my family for loving me and taking care of me. And the rest of the world can kiss my ass”, che per una lettera scritta dal carcere e diretta ai responsabili della sua condanna, che conteneva una vera e propria maledizione. Qui siamo al confine tra la realtà e la ghost-story: molte delle persone coinvolte, dall’avvocato difensore ad alcuni membri della giuria, morirono in circostanze tragiche. Che si sia trattato solo di coincidenza non spetta a noi dirlo, vero è che digitando su Google, the curse of Johnny Frank Garrett ci si può fare un’idea di quella che è diventata una vera e propria urban legend, di cui peraltro circolano versioni diverse tra loro. Lo script sarà firmato da Ben Ketai e tra i protagonisti ci saranno Sean Patrick Flanery (The Boondock saints) ed Erin Cummings (Bitch Slap). Sarà a dir poco interessante vedere un “realista dell’orrorifico” come Rumley varcare il confine tra verità e leggenda: non resta che attendere questa “ultima parola”, anche con un po’ di giustificata impazienza.

 

Chiara Pani

 


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