Claudia Santonocito 27 maggio 2013
Simonetta Agnello Hornby è un’ottima scrittrice, nulla da eccepire. Caratterizzata da una prosa viva, formosa ed estremamente descrittiva, è particolarmente apprezzata dal pubblico italiano, soprattutto dai lettori siciliani. Com’è noto, la forza delle sue opere sta soprattutto nelle scelte linguistiche: è possibile imbattersi in verbi, termini e modi di dire tipici del dialetto isolano che sicuramente perderebbero di significato e forza se semplificati in italiano. Inoltre è risaputo che oltre ad essere brava, la Hornby è anche buona, infatti da anni si batte in prima linea in tanti progetti contro la violenza domestica. Brava e buona, ma – ahimè – un po’ scontata. Veniamo al dunque. Riposto in libreria l’ultimo suo romanzo, Il veleno dell’oleandro (edito da Feltrinelli nella collana I Narratori), cerco di trarre delle conclusioni.
La copertina. Obiettivamente il titolo è affascinante e la copertina è graficamente piacevole.
La trama. L’impalcatura è quella di un thriller familiare all’interno del quale si nascondono i ricordi, i segreti e le bugie di almeno tre generazioni. La padrona indiscussa del romanzo è la grande casa al cui interno, non senza una certa teatralità, si svolge tutta la vicenda, seppur in tempi diversi. La descrizione della tenuta di campagna è eccellente, senza la maestria della Hornby, probabilmente il lettore vagherebbe tra le pagine senza troppo interesse. Ma fortunatamente è semplice e quasi piacevole immaginare questo gigantesco ambiente pieno zeppo di stanze, oggetti e ricordi all’interno del quale si fruga. Difatti il verbo più adatto per definire questo libro potrebbe essere proprio “frugare”: all’interno della memoria, tra i ricordi, tra le scatole, negli armadi, in giardino, nella vita degli altri, dappertutto. Ma soprattutto nella vita degli altri perché è quello che fanno i tre fratelli davanti al letto della zia-matrigna morente. E lo fanno sotto l’ammaliante presenza androgina di Bede che da anni tiene le redini economiche della casa e dell’esistenza della zia.
La narrazione. I capitoli sono tutti datati e si svolgono durante l’arco di una settimana e alternano i racconti e i punti di vista di Bede sia da vivo che da morto (tranquilli, non vi ho svelato il finale, lo si scopre nella prima pagina) e di Mara, la maggiore dei tre fratelli. Chiaramente non è una grande trovata stilistica, ma aiuta in qualche modo il lettore a svelare i tantissimi misteri che celano questa grande casa e i suoi abitanti. Perché di misteri ce ne sono davvero tanti, e, a mio avviso, uno degli errori dell’autrice è proprio quello di aver fatto un uso eccessivo di temi. Partiamo dalla famiglia, con fratelli e fratellastri, madri, matrigne e segreti inconfessabili; arriviamo alla violenza domestica atterrando sul maltrattamento, lo sfruttamento e anche l’immigrazione clandestina scandita da una sorta di setta numerica, il tutto sotto la percepibile essenza di omosessualità latente, dichiarata o nascosta. Aggiungiamo passaggi segreti, pareti che si aprono nel bel mezzo delle montagne, scale che si inerpicano tra finti muri, riviste porno degli anni Cinquanta, cacce al tesoro di gioielli. Insomma, non manca nulla. Il problema sta proprio in questo, c’è tanta roba ma uno spazio piccolissimo per contenerla, e probabilmente per questo motivo la trama diventa quasi scontata e in alcuni punti davvero banale. A chi ha già letto la Hornby verrà spontaneo notare la presenza delle sue donne forti ma invischiate in situazioni amorose non facili; stavolta però la scrittrice si è voluta sbilanciare e le ha affiancate ad una figura di dandy effeminato, cadendo – secondo il mio modestissimo parere – in un gigantesco cliché. Tutti gli altri personaggi, talmente sono diversi e interessanti, avrebbero da sé fornito moltissimi spunti ma per una qualche strana ragione a tutti tocca la stessa sorte: quella di essere quasi fastidiosi, nessuno di loro appare simpatico o in qualche modo piacevole. Risulta quasi impossibile riuscire a fare il tifo per qualcuno di loro.
Conclusioni. Insomma, la Hornby come una novella Cleopatra si avvelena con le sue stesse mani e stavolta non usa di certo l’oleandro: sarebbe comodo munirsi di siero per il prossimo romanzo o rischia di avvelenare mortalmente i suoi lettori.