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Sindacati e unità d'Italia

Da Brunougolini
Quando si parla di unita' d'Italia, in questo tormentato centocinquantesimo, bisognerebbe non dimenticare un testo: il vocabolario italiano. E un uomo, Giuseppe Di Vittorio, che fece di quel testo un'arma a disposizione dei cafoni meridionali. Un'arma per la loro emancipazione, la loro libertà e per costruire dal basso, appunto, l'unità del Paese. Appare, in tale episodio, apparentemente minore, un nesso tra la storia del lavoro, la storia delle organizzazioni dedicate al lavoro e lo sforzo continuo per rendere davvero unita l'Italia, con un filo rosso che collega il Risorgimento alla Resistenza, fino ai giorni nostri. Magari cominciando dalla lingua, da un sapere di base, per conoscere, per comunicare, per conquistare diritti e protagonismo.
Come ha spiegato  Enrico Panini,  illustrando le tante iniziative promosse dalla Cgil per il centocinquantenario, è sempre il lavoro, la trincea dell’impegno e della democrazia. Cosi dalla nascita delle primo leghe nel 1851 alla parola d'ordine dello sciopero generale nazionale del 1904, appare l'impegno a costruire una coesione sociale, vincendo corporativismi, particolarismi e frammentazioni. Ha ricordato Giuseppe Casadio come quello sciopero generale era stato "il sintomo più evidente del bisogno di effettiva unità nazionale che proveniva dal mondo del lavoro organizzato".
Era una tensione che si ritrova poi in altre pagine della storia sindacale e che chiamano in causa anche il potente contributo dei cattolici da  MIglioli, a Grandi, a Pastore, a Carniti. È anche attraverso il loro impegno che prende corpo lo sforzo per unire sul serio l'Italia, nelle battaglie per la rinascita del Mezzogiorno, per organizzare nel triangolo industriale, da Torino, a Milano, a Genova, l'immigrazione di migliaia e migliaia di immigrati meridionali, chiamati a costruire un pezzo fondamentale della ricchezza del Paese.
Le sequenze, le immagini  si moltiplicano: passano dalla richiesta contrattuale di estendere il diritto allo studio (le 150 ore care a Bruno Trentin, continuazione di quel "vocabolario" amato da Di Vittorio), alle lotte per superare le cosiddette "gabbie salariali", alla manifestazione voluta dai metalmeccanici a Reggio Calabria contro i "boia chi molla" che volevano spaccare il Paese, alla folla operaia che invade piazza del Duomo per salutare le vittime della strage di Piazza Fontana, all'estremo addio a Guido Rossa, operaio dell'Italsider di Genova. Che cosa sarebbe stato questo Paese, nel clima torbido del terrorismo, se non ci fosse stata la risposta potente, se pur tardiva nell'affermarsi, del mondo del lavoro? E' stata quella massiccia entrata in campo che ha tolto il respiro ai fautori della lotta armata. Così come è giusto ricordare le bandiere di Cgil, Cisl e Uil sventolate, in una giornata del 1997, a Milano e a Venezia. Erano manifestazioni indette per respingere i propositi secessionisti animati dalla Lega Nord, in difesa, appunto, dell'unità nazionale.
E oggi? Oggi tutto è più difficile. Oggi illustri commentatori dalle colonne del "Corriere della sera" danno per scontata la fine dell'unità sindacale e quindi anche di uno sforzo comune per la coesione nazionale. Senza ricordare chi ha perseguito con tenacia ed efficacia questo scopo, lavorando assiduamente, attraverso il ministero che dovrebbe richiamarsi al lavoro, per introdurre cunei tra le Confederazioni sindacali. E per introdurre, nello stesso tempo, aspre divisioni nelle condizioni di lavoro, attraverso la moltiplicazione delle soluzioni contrattuali, lo svuotamento dei contratti nazionali. Un modo per offendere anche chi 150 anni fa aveva cominciato a disegnare l'unità d'Italia.

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