Martedì 08 Maggio 2012 16:52 Scritto da Nicoletta Bartolo
— Seguitemi; il signor Sindbad, mio padrone, vuol parlarvi.
E lo condusse seco, introducendolo in una gran sala, ove erano molte persone intorno ad una tavola coperta d’ogni specie di vivande delicate. Vedevasi al posto d’onore un personaggio grave, ben fatto e venerabile per la sua lunga barba bianca, e dietro a lui erano in piedi molti ufficiali e famigliari intenti a servirlo.
Questo personaggio era Sindbad.
Tratto da "Le mille e una notte"
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L'audiofiaba
Il testo originale
Eravi a Bagdad un povero facchino chiamato Sindbad. Un giorno mentre era occupato nei suoi tristi pensieri, vide uscire da un palazzo un servo che venne a prenderlo per un braccio, dicendogli:
— Seguitemi; il signor Sindbad, mio padrone, vuol parlarvi.
E lo condusse seco, introducendolo in una gran sala, ove erano molte persone intorno ad una tavola coperta d’ogni specie di vivande delicate. Vedevasi al posto d’onore un personaggio grave, ben fatto e venerabile per la sua lunga barba bianca, e dietro a lui erano in piedi molti ufficiali e famigliari intenti a servirlo.
Questo personaggio era Sindbad.
Il facchino, il cui turbamento si accrebbe alla vista di tanta gente e d’un banchetto così splendido, salutò tremante la brigata. Sindbad gli disse di avvicinarsi, e dopo averlo fatto sedere alla sua destra, lo servì a pranzo egli stesso.
Alla fine del pasto Sindbad, osservando che i suoi convitati non mangiavano più, volgendosi a Sindbad, che trattò da fratello secondo il costume degli arabi quando si parlano famigliarmente, gli domandò come si chiamava e qual era la sua professione.
— Signore — ei gli rispose — io mi chiamo Sindbad.
— Son lieto di vedervi — rispose Sindbad. — Voi forse avete udito parlare confusamente delle mie strane avventure, e de’ pericoli corsi sul mare durante i miei tre viaggi; in ogni modo poiché il destro mi si offre spontaneo, ve ne farò un fedele racconto.
— Io aveva ereditato dalla mia famiglia beni considerevoli, e ne dissipai la miglior parte negli stravizi. Ma ravvedutomi dal mio acciecamento e rientrato in me stesso, conobbi esser le ricchezze passeggiere, ove non si governassero meglio di quanto io faceva.
Commosso da tutte queste riflessioni raccolsi gli avanzi del mio patrimonio e vendei all’incanto in pieno mercato tutti i miei mobili; mi avvicinai poscia ad alcuni mercanti che negoziavano per mare, e consultai coloro che mi parvero capaci di darmi dei buoni consigli, volendo trar profitto del poco danaro che mi restava. Presa adunque questa risoluzione, non tardai ad eseguirla. Andai a Bassora, ed ivi mi imbarcai con molti mercanti su d’un vascello che equipaggiammo a spese comuni.
Sciogliemmo la vela e prendemmo la via delle Indie orientali.
Un giorno ci sorprese la bonaccia rimpetto ad una piccola isola quasi a fior d’acqua. Il Capitano fece raccogliere le vele e permise di prender terra alle persone dell’equipaggio.
Ma mentre ci divertivamo a bere, a mangiare, l’Isola tutta ad un tratto tremò.
Nel vascello si accorsero del moto dell’isola, e ci gridarono d’imbarcarci subito, perché quello che a noi sembrava un’isola, era il dorso d’una balena. I più diligenti si salvarono nella scialuppa, gli altri si gettarono a nuoto; io era ancora sull’Isola, o piuttosto sulla balena, quand’essa si tuffò nel mare, ed ebbi appena il tempo ad attaccarmi ad un pezzo di legno portato dal bastimento per accendervi il fuoco, quando il capitano, dopo aver ricevuto a bordo le genti ch’erano nella scialuppa e raccolti alcuni di quelli che nuotavano, approfittando d’un vento favorevole se ne andò. Restai dunque in balìa delle onde. Non avevo più forze e disperava di salvarmi, quando un cavallone per avventura mi gettò sopra un’isola. Mi stesi allora per terra, e restai mezzo morto, finché non apparve il giorno e non mostrossi il sole. Allora, non tralasciai di trascinarmi per trovar dell’erbe buone a mangiare. Essendomi tornate le forze, m’inoltrai nell’isola, pervenendo ad una bella pianura, ove scorsi una cavalla che pascolava.
Nel mentre la mirava, udii la voce d’un uomo che parlava sotterra; indi a poco quell’uomo apparve ed avvicinatosi a me mi domandò chi fossi. Io gli narrai le mie avventure: ed egli dopo ciò, prendendomi per mano, mi fece entrare in una grotta ov’erano seco vari compagni.
Mangiai alcune vivande ch’essi mi offrirono; poi avendo domandato quel che facevano in luogo sì deserto, mi risposero essere palafrenieri del re Mihrage, sovrano di quell’Isola; che ogni anno nella medesima stagione avevano costume di menar colà la cavalla del re, per farla montare da un cavallo marino; che il medesimo dopo averla montata si metteva in atto di divorarla, ma che essi ne lo impedivano colle loro grida obbligandolo a rientrare nel mare.
L’indomani essi presero il cammino della capitale dell’Isola, ed io li accompagnai. Al nostro arrivo il re Mihrage, a cui fui presentato, mi domandò chi fossi, e per quale avventura mi trovassi ne’ suoi Stati.
Quand’ebbi appagato la sua curiosità, rispose di prender molta parte alla mia sventura.
Vi ha sotto il dominio del re Mihrage un’Isola chiamata Cassel, ove mi si disse si ascoltava tutte le notti un suono di timballi, che diede a credere a’ nocchieri che Degial vi dimorasse.
Ebbi desiderio d’esser testimonio di quella meraviglia. AI mio ritorno, trovandomi un dì sul porto, vidi approdare un naviglio. Dopo che fu all’ancora,cominciò a scaricare le mercanzie, ed i negozianti a cui appartenevano, le facevano trasportare nei magazzini. Gettando io gli sguardi su quelle balle, e sullo scritto che indicava a chi appartenevano, vi scorsi il mio nome. Riconobbi anche il Capitano: ma siccome io era persuaso ch’ei mi credeva morto, mi avvicinai domandandogli a chi appartenevano quelle balle.
Egli mi rispose:
— Io aveva a bordo un mercante di Bagdad, chiamato Sindbad. Un giorno in cui eravamo vicino ad un’isola, come a noi sembrava, scese sulla medesima con molti passeggieri: ma invece d’un’isola era una balena d’enorme grandezza addormentata a fior di acqua. Essa non sì tosto s’intese riscaldare dal fuoco che si era acceso sul suo dorso per fare da mangiare, cominciò a scuotersi, indi a tuffarsi nel mare. La maggior parte delle persone che vi erano sopra si annegarono, e lo sventurato Sindbad fu di quel numero.
«Queste balle erano sue ed io risolvetti di negoziarle, finché non avessi incontrato qualcuno della sua famiglia a cui restituire il guadagno che ne avrò ricavato.
— Capitano — gli dissi allora — io sono quel Sindbad da voi creduto morto, e queste balle sono miei beni e mie mercanzie.
Ei si scosse al mio discorso: ma fu subito persuaso ch’io non era un impostore, poiché giunsero persone del suo naviglio le quali mi riconobbero.
Scelsi ciò che vi era di più prezioso nelle mie balle e lo regalai al re Mihrage. Egli accettò il mio dono e me ne fece in cambio dei più considerevoli. Dopo di ciò tolsi da lui commiato e m’imbarcai sul medesimo naviglio: ma prima del mio imbarco barattai le mercanzie che mi restavano, con altre del paese. Passammo per molte isole ed approdammo infine a Bassora da dove giunsi in questa città col capitale di centomila zecchini.
Comprai schiavi dell’uno e dell’altro sesso, bei terreni e feci una gran casa.
Fu così che mi stabilii, risoluto d’obbliare i mali sofferti e di godere de’ piaceri della vita.