L’attuale stato di tensione internazionale sulla questione siriana sta assumendo dei contorni sempre più fumosi, complicati e a tratti evasivi.
L’amministrazione Obama si trova di fronte ad un dedalo di incognite vasto e sconfinato, quanto profondo è ancora il pantano causato dagli interventi in Afghanistan e Iraq. Da una parte, il segretario di stato americano John Kerry ha dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero in pugno le prove dell’utilizzo di gas nervino sarin da parte del regime di Bashar al-Assad, grazie ad alcuni test giunti dai primi soccoritori che hanno assistito i civili colpiti dagli attacchi di mercoledì 21 agosto. Sempre ieri, in un’altra apparizione pubblica domenicale, il segretario ha spostato l’asticella del dibattito interno più in alto, affermando che il Presidente ha la possibilità di prendere dei provvedimenti senza l’esigenza di attendere la prassi del voto congressuale sull’intervento.
Al di là della legittimità costituzionale su eventuali azioni militari, proprio il 31 agosto il presidente Barack Obama ha promesso di mettere qualsiasi proposta pertinente all’intervento in Siria sia al voto del Senato che della Camera dei Rappresentanti. Un’iniziativa già assunta anzitempo dall’altra parte dell’atlantico; il 30 agosto il premier britannico David Cameron ha presentato una mozione alla Camera dei Comuni aprendo le porte alla discussione politica in parlamento, al termine della quale l’opzione dell’intervento è stata risolutamente bocciata. Ma gli Usa sono disposti ad agire in via autonoma e indipendente, anche senza il sostegno dello storico alleato di Downing Street. Lo ha rimarcato lo stesso John Kerry, che comunque non esclude un via libera da parte del Congresso statunitense, attraverso il quale passeranno fino a prova contraria le decisioni che potrebbe presentare la Casa Bianca già dalla prossima settimana, al rientro delle pause estive dei politici.
Nel frattempo, l’opinione pubblica internazionale non ha tardato ad esternare dissapori e svariate inquietudini. In Turchia, centinaia di manifestanti hanno riempito le strade di Istanbul in una protesta silenziosa contro la guerra e contro il possibile intervento militare in Siria da parte del governo turco. Invero, durante il weekend il primo ministro Recep Tayyip Erdogan ha bruciato le tappe sulle possibile azioni militari da adottare contro l’ex alleato di Damasco. Definendo l’ONU un organo paralizzato, si è detto favorevole alla costituzione di una coalizione di “volenterosi” disposti ad agire quanto prima per porre fine ad un conflitto che ha causato più di 100mila vittime nel giro di due anni. Le proteste anti-governative hanno avuto luogo anche in altre città turche. A Reyhanli, località posta sul confine con la Siria, i manifestanti hanno formato una catena umana tra i due siti in cui alcune autobombe uccisero 53 persone nel mese di maggio.
in Francia, il presidente François Hollande si trova ad affrontare le crescenti richieste da parte dei politici dell’opposizione, che chiedono di spostare i dibattiti in Parlamento per decidere sul ruolo del contingente francese nel merito della questione siriana; tra queste, la voce dell”ex primo ministro François Fillon invita a riflettere sulle ripercussioni che potrebbe avere un’operazione militare condotta in una regione instabile come il Medio Oriente. Per il momento, la Francia sembra essere l’unica grande potenza occidentale intenzionata a non ancorarsi di fronte all’iter dell’approvazione parlamentare. Secondo la costituzione, il presidente – che è anche a capo dell’esercito – detiene tutti i poteri necessari per ordinare l’intervento militare. I parlamentari saranno tenuti a votare soltanto nel caso in cui l’intervento dovesse protarsi oltre i quattro mesi. In ogni caso, da una parte la decisione di Obama di chiamare in causa il Congresso e dall’altra il rifiuto espresso dalla Camera dei Comuni nel Regno Unito hanno lasciato Hollande in una posizione interna sempre più imbarazzante. Non è un caso che il ministro degli interni Manuel Valls si sia apprestato a ribadire che la Francia non agirà da sola: dunque l’Eliseo attende le fumate di Washington, bianche o nere che siano. Anche se dai recenti sondaggi risulta evidente la contrarietà dei francesi all’idea di un intervento militare nell’ex colonia; un risultato che scongiura le “imprese” post-napoleoniche di Sarkozy in Libia.
Attualmente, lo scoglio più insormontabile resta incagliato negli sconfinati e dispersivi corridoi delle Nazioni Unite. Vladimir Putin ha liquidato le accuse rivolte dal governo statunitense verso il regime di Damasco come “una sciocchezza inaudita “. Per quanto riguarda l’utilizzo di armi chimiche da parte dell’amico Assad contro il popolo siriano, il presidente russo ha invitato l’amministrazione di Obama a presentare le prove in sede del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, maligando sul ruolo degli Stati Uniti, che negli ultimi giorni è stato stigmatizzato dalla stampa russa in un disperato tentativo di acutizzare ulteriormente la brutalità della guerra civile in Siria. Nel frattempo, un primo confronto tra le posizioni di Washington e del Cremlino andrà in scena durante il summit del G20 che si terrà a San Pietroburgo il 5-6 settembre. Secondo il capo del Comitato per gli Affari Esteri della Duma russa Aleksej Pushkov, il Presidente Obama userà il summit del G20 per giustificare l’intervento militare in Siria.
Intanto, il Segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon ha chiesto agli ispettori inviati a Damasco guidati dallo scienziato svedese Ake Sellström di accelerare le loro indagini sul rilevamento di armi chimiche. Il portavoce delle Nazioni Unite Martin Nesirky ha garantito che il processo di verifica e monitoraggio sarà condotto nel più rigoroso rispetto degli standard stabiliti dall’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. I campioni saranno inviati ai laboratori in Finlandia e in Svezia entro lunedi. L’Onu ha stimato che il processo potrebbe richiedere circa due settimane, ma visto l’acursi della situazione diplomatica i tempi di attesa potrebbero essere forzati.
Riprendendo un aforisma del celebre David Frost, scomparso il 31 agosto, la diplomazia è l’arte di permettere ad un altro di fare a modo tuo. Del resto, lo hanno insegnato i conflitti dell’ultimo decennio. Dalla Serbia alla Libia passando per l’Iraq a ben poco sono serviti i vertici delle Nazioni Unite. Ma al giorno d’oggi, gli effetti di un’ipotetica missione in Siria targata Nato e guidata da Usa-Francia e Turchia potrebbero seriamente accendere una miccia detonante, sia per quanto riguarda gli sviluppi internazionali sul fronte di Hezbollah, Iran e Russia che per quanto concerne il rapporto con l’opinione pubblica interna dei paesi impegnati. Lo sa bene il ministro degli esteri italiano, Emma Bonino, che ha escluso ogni ipotesi di intervento senza una risoluzione dell’Onu: il caos siriano va prima di tutto capito. Di converso, lo sa bene anche il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che si è recentemente dichiarato pronto a fronteggiare qualsiasi minaccia nei confronti di Israele. A tal proposito, mettiamoci pure dentro le critiche del ministro Uri Ariel, secondo cui le titubanze di Obama starebbero gettando ombra sulla volontà degli Stati Uniti di impedire all’Iran di sviluppare un’arma nucleare. Del resto, come asseriva Hugo, a corte chi dice fiducia dice intrigo. E chi dice intrigo dice avanzamento.