1. A due anni e centomila morti dall’inizio delle ostilità, la Siria è un campo minato. Vi sono coinvolte le maggiori potenze regionali e globali, ciascuna secondo una precisa scelta di campo. Troppi gli interessi in gioco, sufficienti a tenere acceso il focolaio di guerra per un tempo indeterminato. Un terreno di trappole incrociate, la più temuta delle quali è rappresentata dalle armi chimiche. Quelle che secondo il presidente americano Obama rappresentavano la cosiddetta “linea rossa”, superata la quale gli Stati Uniti avrebbero rivisto “tutta la gamma delle risposte strategiche” a loro disposizione. Limite che secondo voci ufficiali (nell’ordine: Coalizione Nazionale Siriana, Stati Uniti d’America, Europa, Francia, Regno Unito) il regime di Damasco avrebbe già oltrepassato; ma nessuno può provarlo con certezza. Ogni conferma viene annunciata tra gli squilli di tromba per poi affievolirsi quando si tratta di esibire le prove.
Da qui una serie di domande: le armi chimiche sono state usate davvero? Se sì, da chi? In caso contrario, perché se ne parla con sempre maggiore insistenza? E perché le versioni sono così contrastanti?
Agli ultimi due interrogativi possiamo rispondere fin da ora. In Siria, accanto alla guerra sul campo infiamma la guerra parallela dei media. In un conflitto dove a procedere è solo il numero delle vittime, le parole diventano armi, e la propaganda, strategia. Le informazioni sul campo, veicolate attraverso il web per aggirare la censura del regime, assurgono a verità assolute o a bufale a seconda di chi le afferma. Buona parte dell’informazione sul campo giunge infatti dai filmati pubblicati su YouTube da ribelli e attivisti e poi acriticamente ripresi dalla stampa occidentale. Ma se all’inizio le cronache fai-da-te erano l’unico mezzo per estrarre notizie dal territorio, in seguito il fenomeno mediatico si è ingigantito al punto da sostituire l’informazione improvvisata con la disinformazione strategica. Come sosteneva l’analista Lorenzo Trombetta già nel 2011, in Siria scompare il fatto e domina l’opinione. Da guerra sul campo si passa alla guerra di percezioni. Ed è a questo livello che si colloca il possibile utilizzo delle armi chimiche in Siria.
La minaccia del loro possibile utilizzo è parte integrante del registro narrativo di tutti i soggetti coinvolti nella mischia siriana: dell’Occidente, per tenersi fuori dal conflitto; del regime, per giustificare la sua brutale repressione; dei ribelli – o meglio, dell’opposizione all’estero – per invocare l’intervento di una comunità internazionale che sembra udire solo da questo orecchio.
2. Partiamo dall’inizio. Ufficialmente, la Siria non ha armi chimiche. Di fatto, le forze di Assad possiedono circa 650 tonnellate di gas Sarin, 200 di iprite e una quantità indefinita di agente 15. La conferma dell’esistenza dell’arsenale chimico siriano, immaginato fin dagli anni Settanta, è indirettamente arrivata il 23 luglio 2012 dalle stesse autorità di Damasco, quando il portavoce del Ministero degli Esteri, Jihad Maqdisi, dichiarò che la Siria “userà le armi chimiche solo in caso di attacco esterno”.
L’eventualità che il regime utilizzi gli agenti non convenzionali contro ribelli o civili è dunque remota. Eppure, esattamente cinque mesi dopo l’annuncio di Mqdisi - il 23 dicembre – nel corso di un’offensiva delle forze lealiste in tre quartieri di Homs vengono lanciati alcuni ordigni contenenti del gas. Si contano sette morti e una cinquantina di persone affette complicazioni respiratorie. Il portavoce del Consiglio rivoluzionario siriano, Walid Faris, parla senza mezzi termini di “armi chimiche”, facendo esplodere il caso. La conferma dell’uso dell’agente 15 a Homs arriva un mese dopo, il 15 gennaio, dalle righe di un articolo su Foreign Policy, che rivela i dettagli di un’inchiesta del consolato americano. Sette giorni dopo, la testata ritratta: troppe contraddizioni nelle testimonianze, troppo pochi indizi certi su cui fondare delle conclusioni certe. Da allora, le indagini volte ad appurare se l’uso di tali armi sia avvenuto o meno sono andate avanti. Senza mai arrivare ad una risposta certa: non soltanto se queste armi siano state usate, ma anche - e soprattutto – da chi.
Gli sviluppi successivi non chiariscono questi dubbi. Anzi, li accentuano. Due casi di sospetto uso di gas nocivi si verificano ad Aleppo a metà marzo e fine aprile. E’ in seguito a quest’ultimo episodio che il presidente Obama invia una lettera al Congresso per diffondere il contenuto di un rapporto d’intelligence, secondo il quale vi erano evidenze circa l’avvenuto uso del Sarin, ma la missiva si smentisce da solo dicendo che “non possiamo provarlo“. Tuttavia, secondo il Global Post, sulla base delle foto e dei video in possesso della testata, i sintomi mostrati dalle vittime non corrispondono a quelli tipici causati da esposizione al gas Sarin. In questo clima di ambiguità, l’Unione Europea si mostra scettica. Nessuno dei suoi tradizionali alleati sceglie di sostenere l’America su questa strada. Ma Obama, ufficialmente per impedire ulteriori episodi come quelli di Aleppo, si dichiara pronto adinviare armi ai ribelli. In realtà non succede nulla, e le giornate riprendono a scorrere più o meno oziosamente finché il 7 maggio, a gettare benzina sul fuoco ci pensano poi le dichiarazioni di Carla Del Ponte, ex procuratore del Tribunale Penale Internazionale, la quale afferma che il gas Sarinsarebbe stato usato dai ribelli e non dagli uomini di Assad. Affermazioni presto smentite sia dagli USA che dall’ONU.
3. Venti giorni dopo il mondo si sveglia con una notizia bomba. Il 27 maggio il quotidiano franceseLe Monde pubblica una lunga analisi (corredata anche da fotografie) secondo cui il regime di Damasco avrebbe iniziato a utilizzarle contro i ribelli in maniera sempre più frequente a partire dal mese di aprile. Il giornalista Jean-Philippe Rémy e il fotografo Laurent Van der Stockton, corrispondenti della testata e clandestini in Siria per due mesi, raccontano in maniera molto dettagliata le diverse fasi degli attacchi chimici a cui hanno assistito. In particolare testimoniano un attacco nel quartiere di Jobar, a circa due chilometri a nord est dalle mura di Damasco, nonché episodi simili avvenuti in altre zone della capitale. Per la prima volta due giornalisti di un quotidiano occidentale documentano direttamente l’uso di queste temutissime armi. Non solo: è l’indagine più approfondita sulle armi chimiche in Siria condotta al di fuori dei circuiti di intelligence.
Eppure qui nasce un equivoco. Le testimonianze riportate da Rémy e Van der Stockton, come correttamente specificato dallo stesso Le Monde in un editoriale pubblicato l’indomani, benché certamente dimostrino l’uso di agenti tossici nel conflitto, non offrono comunque una prova inconfutabile dell’uso di armi chimiche. Perché – ecco il disguido - non tutte le sostanze possono considerarsi “armi chimiche”, ma solo quelle citate dalla Convenzione del 1993.
Noncurante di tale precisazione, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, non perde tempo a dichiarare l’esistenza di nuove prove al riguardo. Nello stesso giorno l’Unione Europea, incapace di trovare un accordo circa il prolungamento dell’embargo sulle forniture di armi in Siria, preferisce alzare le braccia lasciando ai singoli Stati membri ogni decisione sul potenziale invio di armamenti ai ribelli. A distanza di qualche settimana, sia il premier inglese David Cameron che il presidente USA Barack Obama ribadiranno quanto già detto da Fabius. Salvo poi ammettere di non avere prove sufficienti per confermare l’effettivo uso degli agenti chimici sul campo. È un copione che si ripete.
L’indagine di Le Monde, lungi dal fugare ogni dubbio, pone anzi un quesito ad oggi rimasto senza risposta: se due giornalisti sono stati in grado di assistere direttamente al (presunto) utilizzo di armi chimiche in Siria, come è possibile che non ci siano riusciti i servizi di intelligence delle grandi potenze mondiali?
4. A prima vista, l’atteggiamento di Obama lascia perplessi: nell’ultimo anno il registro comunicativo dell’amministrazione Obama si è dipanato in un’altalena di posizioni il cui risultato finale è stato in ogni caso l’immobilismo. Se nell’agosto del 2012 il presidente metteva in guardia il regime di Damasco anche solo dal “muovere le armi chimiche all’interno del Paese”, nell’agosto successivo ha dichiarato che soltanto “un loro eventuale uso sarebbe intollerabile”, per poi segnare un vero e proprio cambio di passo a partire dalla prima metà di quest’anno, quando l’avvenuto uso di armi chimiche verrà più volte confermato da una serie di rapporti d’intelligente.
Nel pomeriggio di giovedì 13 giugno (in Italia era notte), la Casa Bianca annuncia quello che molti ripetono da tempo: il regime siriano ha usato armi chimiche contro la popolazione. La prova arriva dall’analisi di diverse fonti di intelligence, prendendo in esame i piani militari del regime siriano, i rapporti su particolari attacchi condotti nell’ultimo anno, gli esami clinici di sangue e urine nonché le descrizioni dei sintomi riportati dalle persone esposte ai gas, confermano l’avvenuto utilizzo degli agenti chimici. L’uso sarebbe avvenuto “su scala ridotta” in diverse occasioni nel corso dell’ultimo anno, uccidendo complessivamente tra le 100 e le 150 persone, ma secondo l’intelligence degli USA il numero di morti potrebbe essere più alto. In seguito all’annuncio, Ben Rhodes, tra i più importanti consiglieri di Obama per la sicurezza nazionale, dichiara che le novità sulle armi chimiche porteranno a un “maggiore impegno degli Stati Uniti” sul fronte siriano, senza tuttavia specificare, in cosa dovrebbe consistere questo coinvolgimento. Le conclusioni della Casa Bianca arrivano nello stesso giorno in cui le Nazioni Unite comunicano le ultime stime sulle vittime del conflitto: almeno 93mila morti tra lealisti, ribelli e - soprattutto - civili.
Finora il sostegno degli Stati Uniti alla causa dei ribelli si è mostrato piuttosto tiepido, limitandosi alla fornitura di cibo, medicinali kit di primo soccorso. Un’assistenza sostanzialmente inutile se messa in confronto con le grandi quantità di armi che si pensa siano consegnate regolarmente dall’Iran e dalla Russia all’esercito lealista. Ciclicamente torna in auge l’ipotesi di istituire una zona interdetta al traffico aereo militare (No-fly-zone) al confine tra Siria e Giordania, ma in sede ONU una mossa del genere sarebbe subito bloccata dalla Russia, memore dell’esperienza libica. L’unica strada, a questo punto, sarebbe quella di armare direttamente i ribelli, compito peraltro già assolto dalle petromonarchie del Golfo (Qatar in testa, Arabia Saudita e, benché non se ne pali mai, Kuwait). Un’analoga proposta era già stata avanzata lo scorso anno dall’allora direttore della CIA, David Petraeus, col sostegno del Dipartimento di Stato e del Pentagono, ma la Casa Bianca aveva respinto l’idea. Solo su una cosa sono tutti d’accordo: è escluso ogni intervento sul campo.
Generalmente, non pochi attivisti, bloggers e altri esponenti della (contro)informazione accusano gli Stati Uniti di strumentalizzare la questione delle armi chimiche proprio al fine di prepararsi una scusa per intervenire militarmente nel caos siriano, sulla falsariga di quanto avvenuto esattamente dieci anni fa in Iraq. In realtà, le cose stanno molto diversamente: l’America non ha nessuna intenzione di impelagarsi in un altro conflitto mediorientale, e la stessa opinione pubblica statunitense vuole che Washington stia alla larga dalla Siria. Tuttavia c’è precisa una ragione per cui il presidente Obama ha più volte modificato i propri paletti.
5. C’è un altro attore che mette lo spettro delle armi chimiche al centro della propria retorica, ed è la Coalizione nazionale siriana. La quale si pone come unico legittimo referente del popolo siriano agli occhi della comunità internazionale, ma i cui legami con le forze ribelli sul campo sono quanto meno indefiniti. Più volte i suoi massimi dirigenti, come il presidente (poi dimissionario) Moaz al-Khatib o il vicepresidente George Sabra hanno lanciato l’allarme sul possibile impiego di agenti non convenzionali, denunciando che “la Siria riterrà il mondo responsabile nel caso in cui il regime non esitasse ad usarle”. L’opposizione spera così di squalificare ulteriormente Assad agli occhi del mondo e allo stesso tempo strappare aiuti più concreti – leggasi: armi - rispetto al generico (e a conti fatti infruttoso) sostegno diplomatico ricevuto sinora.
A riprova di quanto affermato dall’alto ci sono le evidenze filmate provenienti dal basso. Il clamore sui fatti di Homs nel dicembre 2012, ad esempio, nasce dalla pubblicazione di diversi video amatoriali, mostranti alcuni feriti alle prese con complicazioni respiratorie poi frettolosamente attribuite agli effetti del gas Sarin, Altri video mostrano le testimonianze di alcuni medici che attribuiscono l’origine di tali sintomi a “gas velenosi”. Due settimane prima l’emittente panaraba al-Arabiya aveva ripreso altri video improvvisati per realizzare un servizio sulle “tracce di armi chimiche” usate contro i civili.
Tuttavia, nella galassia dell’opposizione c’è anche chi si mostra scettico. A fare eccezione sono soprattutto gli attivisti sul campo, pur denunciando le atrocità commesse dalle forze lealiste, compreso l’uso indiscriminato di bombe a grappolo, incendiarie e al fosforo, non credono che il regime userà mai le armi chimiche e parlano piuttosto di una “partita mediatica” intorno all’argomento.
L’impressione è che quanto più ci si allontana dalla Siria, tanto si più agita la minaccia delle armi chimiche per attirare l’attenzione di una comunità occidentale sensibile solo a questo argomento. Completando il ventaglio delle tante, troppe versioni contrastanti.
6. Al di là del fatto che la Casa Bianca, se solo volesse, avrebbe già pronto l’appiglio per agire, visti gli ultimi, succitati riscontri dell’intelligence, la verità è che nel definire l’utilizzo l’uso di gas letali come la “linea rossa” oltre la quale Assad avrebbe varcato il punto di non ritorno, Obama intendeva garantirsi la pressoché totale certezza di non dover intervenire nel conflitto. Che la linea rossa fosse stata fissata proprio affinché non venisse superata l’aveva chiarito lo stesso presidente americano, il quale confidava sulla razionalità di un regime che non vuole bruciare le ultime chances di ottenere l’immunità per sé e la sua cricca, una volta che la sconfitta fosse apparsa inevitabile. Agitare lo spettro delle armi chimiche risponde ad un calcolo legato più alla diplomazia che alla pianificazione strategico-militare. Basta seguire le date.
La Casa Bianca ha confermato delle armi chimiche da parte di Asad nella giornata del 13 giugno, quattro giorni prima della riunione del G8 in programma in Irlanda del Nord. A margine del summit, era previsto un incontro bilaterale tra il presidente USA e il suo omologo russo Vladimir Putin, in cui Obama sperava di coinvolgere Mosca in una (vera) trattativa sulla guerra a Damasco. In altre parole, l’obiettivo degli Stati Uniti era squalificare Assad agli occhi del suo più fedele paladino sul piano diplomatico a tal punto da indurlo a rivedere il suo sostegno al regime. In tal caso sarebbe stato possibile riproporre una risoluzione che preveda l’istituzione di una No-fly-zone senza correre il rischio che questa venga cassata dal veto di Mosca. Ma Putin non ha abboccato, soprattutto ora che la credibilità degli Stati Uniti è messa in forse dalla vicenda Snowden.
La domanda sul perché Obama abbia impresso questa sterzata solo ora è presto spiegata. Fino agli inizi del 2013 la fine di Assad appariva molto vicina: con la perdita di importanti basi militari, le continue defezioni tra gli alti gradi dell’esercito e le voci di un prossimo abbandono da parte dell’Iran il destino del regime pareva segnato. Da allora, le sorti del conflitto si sono letteralmente capovolte, sulla scia di una serie di eventi che ne allontanano la fine e che hanno indebolito notevolmente il fronte dei ribelli: il maggiore coinvolgimento di Hezbollah, la riconquista di Qusayr da parte del regime, il gemellaggio di Jabat al Nusra con al Qaeda in Iraq. Inoltre, il presidente conserva la fedeltà delle Forze armate e lfappoggio di alcune fasce della popolazione che considerano il mantenimento dellfattuale potere il male minore rispetto a un futuro incerto, potenzialmente condizionato dalla presenza dell’islamismo radicale. E con l’opposizione – sia quella armata sul campo, che quella diplomatica all’estero – sempre più divisa, l’ipotesi che alla fine il presidente rimanga in sella è tutt’altro che peregrina.
La soluzione al conflitto proposta dalla Russia porta proprio su questa strada. Assad - col sostegno di Mosca - punta a rimanere al suo posto fino al 2014, quando saranno in programma le elezioni “democratiche” in ossequio al piano di riforme da lui stesso proposto lo stesso anno. E con una parte della popolazione radunata intorno alla sua figura, mentre milioni di altri cittadini saranno impossibilitati a votare in quanto sfollati sia all’interno del Paese che nei campi profughi allestiti in Turchia, Giordania e Iraq, non è difficile immaginare quale sarà l’esito delle urne. Con Assad confermato – “democraticamente” - alla guida del Paese, per la comunità internazionale sarà molto più difficile continuare ad invocarne l’allontanamento.
Dopo due anni di combattimenti sempre più aspri, 100mila vittime, una catastrofe umanitaria e del rischio di uno spill over nella regione, l’esito del conflitto potrebbe risolversi nella permanenza di Assad. Un’eventualità che l’America punta a scongiurare in tutti i modi, compreso il ricorso allo spettro delle armi chimiche. Fallita l’occasione offerta dal G8, e con il regime di Damasco in grado di controllare ancora buona parte del territorio (la presa di Quasyr ne è la prova), l’unico modo di convincere Mosca a riprendere un negoziato è riguadagnare terreno militarmente. Da qui la decisione, sempre sulla base delle prove raccolte sull’uso di agenti chimici da parte del regime, di inviare armi ai ribelliinviare armi ai ribelli per riequilibrare una situazione al momento sbilanciata dalla parte di Assad.
7. Proprio ai ribelli vale la pena dedicare una chiosa finale. Se alla fine del 2012 le forze lealiste avevano iniziato a spostare gli stock di agenti chimici all’interno del Paese – provocando la reazione verbale di Obama – non è stato perché avessero intenzione di usarle, bensì per trasferirle in luoghi in più sicuri in vista dell’approssimarsi della minaccia dei ribelli. In quei giorni, le formazioni anti-Assad rivendicavano la conquista di diverse postazioni militari siriane, dove erano custoditi enormi quantitativi di armi e munizioni. Il vero dilemma è cosa accadrebbe se le armi possano finire in mano di ribelli, in particolare quelle di Al-Nusra e delle altre formazioni jihadiste, probabilmente meno propense ad evitarne l’uso rispetto alle divisioni del regime. È probabile che almeno qualche lotto di gas letali lo abbiano già acquisito: le affermazioni di Carla Del Ponte dello scorso maggio – e la foga con cui sia l’America che l’ONU si sono affrettate a smentirle - sono molto indicative in tal senso.
Cosa ne sarà dell’arsenale chimico nel caso in cui i ribelli riuscissero a spodestare Assad non è ancora ben chiaro. Sul punto, la narrazione delle opposizioni siriane – sia armate che diplomatiche –
non ha mai espresso una posizione. Per tale ragione, pare esista un accordo sottobanco col governo siriano (e con i russi) per mantenere gli stock di armi chimiche in sicurezza. Ma un analogo accordo non c’è con i ribelli. I quali, una volta entrati in possesso di tali armi, potrebbero farne uno strumento di pressione nei confronti dell’Occidente in vista di una trattativa sulla Siria che verrà. Inoltre, in questa ipotesi la presenza di formazioni jihadiste armate di gas Sarin a due passi di Israele costringerebbe l’America ad intervenire – stavolta militarmente? - per proteggere il suo alleato, alfa e omega della politica estera mediorientale di Washington.
Lasciando da parte tali infausti scenari, la conseguenza è che nella guerra civile siriana le armi chimiche conteranno dopo, quando il conflitto sarà finito, piuttosto che nell’attuale fase di perdurante ostilità. Al momento il loro ruolo investe più la sfera delle percezioni che quella degli eventi, nel tentativo delle parti – ciascuna secondo i propri fini – di smuovere l’impasse a suon di colpi mediatici. Con la conclusione che l’unico campo di battaglia sul quale le armi chimiche sono state certamente usate è quello della propaganda.
* Articolo comparso in forma ridotta su The Fielder