S’illude chi spera che possa essere Obama a scongiurare una nuova guerra in Siria: fosse per lui – che non ha chiuso Guantanamo ed ha bombardato la Libia, che ha ritirato il Nobel per la Pace salvo poi impiegare droni a volontà per stecchire terroristi veri o presunti in mezzo mondo (Pakistan, Yemen e Somalia) – probabilmente il conflitto sarebbe iniziato da un pezzo. Del resto, l’Amministrazione americana non aspettava altro se si pensa che più di due mesi fa era l’informatissima Repubblica a riportare «che Obama» aveva «deciso di scendere in campo» siriano, e che rimaneva solo «da vedere come e quando» (La Repubblica, 15/6/2013, p. 15).
Sembrava insomma questione di tempo e poi, il 21 agosto, ecco che Damasco – presumiamo al corrente almeno delle stesse informazioni del quotidiano debenedettiano – , pensa bene di buttare benzina sul fuoco impiegando armi chimiche. Fra l’altro, proprio a ridosso di una visita degli ispettori Onu già concordata. Questa, almeno, la “versione ufficiale” nonché l’unica che, pur nella sua illogicità (perché Assad, impantanato in una guerra interna da mesi, avrebbe dovuto fare di tutto, per giunta nel momento di massima attenzione verso di lui, per chiamarsi in casa avversari dall’estero? Aspirazioni suicide?) giustificherebbe un intervento armato.
Armi chimiche?
Non è un attacco, quello compiuto a Damasco dalle forze governative, non ancora. Rimane – come si leggeva ancora ieri sul sito di Repubblica – un «presunto attacco con il gas». Perché «presunto»? Semplice: perché non esiste, allo stato, alcuna prova che lo dimostri. E’ lo stesso segretario di Stato americano, John Kerry, ad aver detto di avere «molti pochi dubbi» sull’uso di armi chimiche nell’attacco in Siria del 21 agosto. Appunto: «molti pochi dubbi» non equivalgono ad una certezza. Di più: vi è persino il dubbio che il «presunto attacco con il gas» sia tutta una montatura dei ribelli al regime. Vanno in questa direzione più elementi, che si possono così sintetizzare:
a) Il fatto, appurato da The Lede, il blog del New York Times, che tutti gli account che hanno pubblicato i video su Youtube relativi al presunto uso di sostanze chimiche durante il bombardamento siano affiliati a ribelli e attivisti: non una fonte super partes (Cfr. Il Post, 22/8/2013);
b) Il fatto, anche questo visibile nei filmati, che a confermare nei video l’uso delle armi chimiche siano medici evidentemente non contaminati, il che sarebbe possibile solo a condizione che l’eventuale ricorso a siffatte armi sia stato piuttosto ridotto, sempre che davvero vi sia stato;
c) Il fatto che, se vero, questo costituirebbe il più massiccio impiego di armi chimiche degli ultimi 25 anni: possibile che il regime siriano abbia scelto di scavarsi la fossa in questo modo, per giunta con gli ispettori Onu praticamente in casa?
Identikit degli oppositori
Per quanto terribili – ed effettivamente lo sono – i filmati di vittime e cadaveri della guerra in corso in Siria, non debbono farci automaticamente accettare la versione di essi che viene offerta dai ribelli. Ribelli che, fra l’altro, sono tutt’altro che i pacifici e candidi liberatori che qualcuno potrebbe pensare. Infatti, posto che molti di loro sono volontari arrivati in Siria dall’estero, è sotto gli occhi di tutti il peso assunto fra le forze di opposizione siriane, specie ultimamente, da brigate islamiste, salafiti e membri di al-Qaeda. Le operazioni più importanti sono in mano a loro.
Gli esempi che si potrebbero ricordare sono molteplici, a partire dalla conquista, avvenuta all’inizio del mese, di un ingente deposito di armi e munzioni nei pressi di Qaldun, villaggio situato una cinquantina di chilometri a nord-est di Damasco, a ridosso della strategica autostrada che la collega ad Aleppo; conquista ad opera delle milizie jihadiste del Fronte al-Nusra, Liwa al-Islam, il Battaglione al-Tawhid, Meghaweer e il Battaglione dei Martiri di Qalamon: non esattamente dei garanti della democrazia, insomma.
Del resto, la prova del nove della pasta di cui sono fatti costoro deriva dal trattamento – terrificante – che riservano ai cristiani. Cristiani che, raccontava già un anno fa sempre Repubblica mica Avvenire o l’Osservatore Romano, «dopo essere rimasti per mesi estranei al conflitto, si sono visti mettere sempre di più nel mirino di gruppi armati, spesso d’incerta provenienza, genericamente definiti “salafiti”, integralisti islamici di fede sunnita, che, anche solo per infiammare lo scontro con l’esercito, o per diffondere il panico, hanno imposto la loro presenza nei quartieri cristiani» (La Repubblica 3/7/2012, p. 19).
Cosa conviene fare
Alla luce di un simile contesto, molto diverso da quello – semplificato e rassicurante -, che vede gli oppositori di Assad i Buoni e nel regime la parte dei Cattivi, forse la cosa migliore è anzitutto riflettere. Siamo sicuri che le cose sono davvero come sembrano? E poi, appartenenza islamista a parte, chi sono davvero questi ribelli? E’ solo un caso che la rivolta, in Siria, abbia iniziato a farsi sentire in prossimità della firma del memorandum di Bushehr, il 25 giugno 2011, riguardante la costruzione del nuovo gasdotto Iran-Iraq-Siria?
Nel dubbio rispetto a questioni forse mai approfondite a dovere, sarebbe meglio favorire, magari attraverso nuove e celeri ispezioni Onu, un’indagine circa l’effettivo ricorso ad armi chimiche. Nel frattempo, l’ideale sarebbe che da un lato i ribelli deponessero le armi – loro che, come abbiamo detto, in non pochi casi non sono neppure siriani -, e, d’altro lato, il regime cogliesse l’occasione per rendersi più rispettoso delle varie sensibilità presenti nel Paese.
La mediazione, insomma. Difficile? Lo è senz’altro. Ma meglio inseguire una realtà complessa ma che però rispecchia il vero che adagiarsi sulla comoda polarizzazione fra fronte da appoggiare e fronte da avversare. Confrontato con l’occidente (se il paragone riguardasse il solo il Medio Oriente, il giudizio muterebbe) Assad non è certo un campione della democrazia, ma neppure i cosiddetti ribelli – a giudicare da quanto s’è visto, fra chiese saccheggiate e violenze di vario genere -, sembrano inclini a buone maniere e convivenza pacifica fra religioni ed etnie diverse. Tutt’altro.