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Sistema di comunicazioni globale e relazioni internazionali

Creato il 14 novembre 2013 da Bloglobal @bloglobal_opi
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di Simone Vettore

Sistema di comunicazioni globale e relazioni internazionali
L’articolo è anche disponibile come Research paper – Scarica qui gratuitamente

sistema di comunicazioni globale
A fine gennaio 2008 Egitto ed India furono colpite da una grave interruzione nell’erogazione dei servizi Internet e voce: il 70% della rete dello stato africano collassò e non molto meglio andò a quella indiana, fuori uso per il 60%. Oltre ai disagi per i cittadini gravi furono pure i danni economici: in particolare tutti i servizi delocalizzati in India (dai call center ai customer care) furono bloccati per giorni. La causa? Una duplice rottura del cavo sottomarino SEA-ME-WE 4, non è ancora stato appurato con certezza se provocata dall’ancora di una nave o cos’altro, rispettivamente vicino a Marsiglia ed ad Alessandria d’Egitto [1].

Ma cos’è il SEA-ME-WE 4? È una delle principali dorsali primarie (o backbone) di Internet e, come si intuisce sciogliendo l’acronimo, si snoda per 18mila kilometri dal Sud-Est asiatico (South-East Asia), al Medio Oriente (Middle East) fino all’Europa occidentale (Western Europe).

Di dorsali come SEA-ME-WE 4 ve ne sono molte altre nelle profondità oceaniche ma non in un numero esorbitante come si potrebbe pensare: a causa degli elevati costi di realizzazione esse sono circa 300 [2]. Si tratta pertanto con tutta evidenza di infrastrutture dall’elevato valore economico, sociale (si pensi ai disagi derivanti dalla loro interruzione) ed ovviamente strategico-militare. In quest’analisi ci soffermeremo, com’è naturale che sia, soprattutto su quest’ultima dimensione e sulle ricadute nelle relazioni internazionali. Prima però, considerando come l’argomento non è poi così noto al grande pubblico, è il caso di fornire qualche cenno a cavallo tra storia e tecnologia.

Iniziamo dunque con lo spiegare com’è fatto un cavo sottomarino e quali furono le prime reti ad essere realizzate. I primi cavi (coassiali) risalgono alla metà del XIX secolo ed erano relativamente semplici nella loro composizione: erano formati infatti da un’anima in rame, lungo la quale transitava il segnale elettrico, rivestita di guttaperca, una gomma naturale simile al caucciù scoperta in quegli anni (1842) in India e nel Borneo e caratterizzata dall’elevata impermeabilità e da un notevole potere isolante. L’impero britannico, che aveva accesso diretto alle piantagioni di guttaperca e che intravide ben presto il vantaggio strategico che avrebbe ottenuto sulle altri Grandi Potenze realizzando una rete che permetteva di mettersi in collegamento in tempo praticamente reale con i suoi possedimenti, non si fece sfuggire la possibilità di estendere la propria leadership anche al settore delle comunicazioni cablate. Non è dunque un caso se i primi cavi subacquei avevano come terminale l’arcipelago britannico: il primo collegamento in assoluto fu quello del 1850 tra Dover e Calais, seguito nel 1858 dal primo cavo transatlantico, steso tra l’Irlanda e l’isola di Terranova [3]. Negli anni successivi la rete di cavi avviluppò progressivamente l’intero globo ma va sottolineato che, pur nella consapevolezza dell’importanza strategica di tale tecnologia, essa rimase sostanzialmente una questione di business.

Il deterioramento delle relazioni internazionali che si verificò sul finire del secolo, con il riarmo navale tedesco e la corsa all’Africa, ebbe ripercussioni anche nel campo delle telecomunicazioni: nell’intento di scalzare il dominio britannico sulla rete di cavi mondiale, a Berlino si spinse a fondo la ricerca su tecnologie alternative, come la trasmissione senza fili (attraverso le onde radio), ottenendo ben presto il primato. I ripetitori berlinesi costruiti dalla Telefunken permettevano di inviare messaggi, appoggiandosi ad un ripetitore nel Togo, sino ai possedimenti del Pacifico (ed ovviamente con tutte quelle unità della Kaiserliche Marine dotate di ricevitore in navigazione nell’area raggiunta dal segnale). A Londra l’Ammiragliato realizzò di trovarsi in grave ritardo nel settore e cercò di colmarlo realizzando la cosiddetta Imperial Wireless Chain, che però poté dirsi completa solo negli anni Venti del XX secolo.

È in questo frangente che per la prima volta si verifica la lotta, che come vedremo diventerà una costante, tra cabled e wired.

Dal punto di vista tecnologico va detto che i cavi in rame reggevano egregiamente il passo rispetto alla tecnologia senza fili: il polietilene sostituì la guttaperca e l’anima cresceva in grossezza, consentendo il passaggio di un adeguato numero di dati. Nel 1956 si ha la posa del primo cavo transatlantico dedicato alle comunicazioni telefoniche (TAT-1) e così sarebbe stato per oltre due decenni; l’ultimo, il TAT-7, fu infatti steso nel 1978 rimanendo operativo fino al 1994. Il successivo TAT-8 del 1986, dal canto suo, sarebbe stato il primo cavo in fibra ottica: quest’ultima, come noto, si basa sulla capacità di alcuni filamenti vetrosi o polimerici di condurre su lunghe distanze, in grandi quantità e senza apprezzabili degradazioni del segnale, la luce.

Sono esattamente questi i cavi che formano l’infrastruttura di base (detta, come già accennato, dorsale primaria o backbone) che regge buona parte di Internet ed, in generale, del sistema di comunicazioni globale [4]. Una tipica dorsale Internet è così costituita: un lunghissimo e costoso cavo, intervallato nei punti opportuni da quelli che in gergo sono definiti BU (Branching Unit, ovvero delle unità che hanno il compito di dividere in due parti il cavo medesimo; in pratica ad ogni BU corrisponde una diramazione che dirige lo stesso verso differenti destinazioni) e da ripetitori che hanno il compito di amplificare il segnale trasportato; tale cavo, adagiato sul fondo del mare, riemerge ovviamente in prossimità della costa finendo la sua corsa nei cosiddetti Cable Landing Point (CLP). Il CLP non necessariamente coincide con il punto in cui il la dorsale si innesta nella rete terrestre: ciò infatti avviene nei Cable Termination Point, dai quali si dipana quella parte intermedia di rete (backhaul) che va a servire la parte terminale (access network) posta a diretto servizio delle utenze.

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Figura 1 – Schema di backbone satellitare

Poc’anzi abbiamo anticipato, tra le righe, che non tutto il traffico Internet si appoggia alla Rete subacquea – terrestre: ciascuno di noi è del resto al corrente del fatto che è possibile collegarsi ad Internet sfruttando il segnale proveniente via satellite. La strutturazione dei backbone satellitari è decisamente più complessa; semplificando gli elementi di base sono tre: 1) la stazione di uplink (una parabola che spedisce il segnale, ricevuto dalla rete locale, verso lo spazio); 2) il satellite (con relativa stazione di controllo a terra), che nella sua versione basica ha il mero compito di “rimpallare” il segnale mentre in quella più avanzata ha quello di amplificarlo, rigenerarlo e ritrasmetterlo; 3) la stazione di downlink, che riceve il segnale e lo reimmette nella rete (cablata o wireless) a livello locale. La presenza di questi tre elementi non è però sufficiente per poter parlare di backbone satellitare: infatti se il trasferimento del segnale dovesse avvenire lungo la catena “stazione di uplink 1” → “satellite 1” → “stazione di downlink / uplink 1” → “satellite 2”→ “stazione di downlink / uplink 2” → “satellite 3” e via di questo passo, si verificherebbe una progressiva degradazione del segnale. Affinché ciò non avvenga occorre che i satelliti siano di tipo generativo (= capaci di rigenerare il segnale) e di accesso alla rete (= in grado di dialogare tanto con le stazioni di uplink e downlink che con le utenze); purtroppo tali satelliti sono più costosi e, per garantire una adeguata copertura spazio-temporale, devono essere spediti in orbita in gran numero [5]. I benefici complessivi derivanti dalla diversificazione nelle fonti del segnale (terrestre e satellitare), unitamente alla ridondanza delle reti subacquee ed alla possibilità di reindirizzare (rerouting) i pacchetti di dati in transito, sono comunque tangibili: è anche per questo motivo che il terremoto ed il conseguente tsunami che hanno colpito il Giappone nel marzo del 2011 hanno provocato disservizi relativamente limitati alla rete di telecomunicazioni nipponica, specie se paragonati a quanto avvenuto appena tre anni prima in Egitto ed in India [6].

La disamina storico-tecnologica fin qui condotta ci ha consentito di affrontare, en passant, alcune questioni che attengono chiaramente alla dimensione delle relazioni internazionali ed a quella, correlata, strategico-militare. In particolare abbiamo visto come vi sia stato, nel corso dei secoli, il tentativo da parte della potenza dominante (nella fattispecie il Regno Unito) di porsi al centro del network di reti e di controllarlo al fine di preservare il proprio dominio sul resto del globo.

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Figura 2 – La rete globale di cavi marittimi nel 2013

Un veloce sguardo alla carta geografica (vedi fig. 2), dimostra come questa rappresenti una costante: balza infatti subito agli occhi come oggigiorno a trovarsi nel core siano gli Stati Uniti, unica superpotenza rimasta – benché in relative decline ed assediata dal dragone cinese. La cosa, si badi, è per certi versi ovvia: Internet, le cui radici affondano nel progetto militare Arpanet, lì vi è nato e lì vi ha messo solide radici una volta che il progetto è stato trasformato in civile, con i primi collegamenti tra i campus universitari e gli istituti di ricerca ed, a seguire, tra questi e gli omologhi nel Vecchio Continente. Che fasci di cavi si dipartano poi copiosi dalla East e dalla West Coast è altrettanto comprensibile: New York, sulla prima, è la principale piazza finanziaria al mondo e la California, sulla seconda, è il centro propulsivo dell’innovazione globale e sede, in quanto tale, delle principali aziende high-tech.

Al netto di tutto ciò, è innegabile che il percorso dei cavi sottomarini segue spesso rotte illogiche rispetto a quello che la geografia suggerirebbe ed alcuni esempi saranno in tal senso illuminanti: tanto per iniziare, si riscontra che esiste una sola comunicazione diretta tra Europa e Sud America (per l’esattezza l’Atlantis 2 che parte da Lisbona e, dopo alcune tappe intermedie, arriva a Las Toninas, nei pressi di Buenos Aires), area in cui gli interessi europei (basti ricordare la massiccia presenza di discendenti degli emigrati colà stanziatisi, provenienti soprattutto dall’Europa meridionale) sono tutto fuorché esigui.

Restando nel Sud America e sempre sul versante atlantico, si osserva altresì come esistono appena due collegamenti diretti con l’Africa: il SAEx, da Fortaleza in Brasile a Mtunzini in Sud Africa, ed il SACS, sempre da Fortaleza a Luanda in Angola (per inciso, due ex colonie portoghesi; sulla presenza di retaggi post-coloniali torneremo oltre, n.d.r.). Spostandosi sul versante del Pacifico si riscontra l’assenza di qualsiasi collegamento diretto verso l’Oceania e l’Asia: le dorsali ivi presenti filano dritte verso la costa orientale degli Stati Uniti e solo da qui si inoltrano verso l’Estremo Oriente passando, di norma, per le Hawaii e Guam.

Alla luce di ciò, anche ammettendo che i collegamenti verso l’Africa non siano stati fatti a causa della scarsa rilevanza economica del Continente Nero e che quelli con l’Oceania non siano stati ritenuti necessari per la scarsità demografica dell’area, è evidente che (in assenza di collegamenti satellitari alternativi), gli Stati Uniti potrebbero virtualmente isolare l’intera America istmica e del Sud: il sospetto che si tratti dell’ennesima ipoteca all’indipendenza di quello che da Washington viene considerato il proprio backyard sorge spontanea.

Pure guardando in casa nostra non mancano interessanti spunti di riflessione: l’Italia, per intenderci, ha appena un collegamento diretto con gli Stati Uniti, partner strategico privilegiato (a dispetto dell’antiamericanismo di larga parte dell’opinione pubblica) dal secondo dopoguerra in avanti. Si tratta del cavo Columbus III che origina da Mazara del Vallo [7] e termina ad Hollywood, Florida: dovesse rompersi questo cavo (come sempre escludendo i canali satellitari) non ci resterebbe che affidarci ai (peraltro numerosissimi) cavi in partenza dal Nord Europa. Cosa che del resto già avviene regolarmente.

Una particolare che infatti è fondamentale avere ben presente è che non necessariamente i pacchetti in transito da un punto all’altro della Rete seguono il percorso più breve (ed a prima vista più logico): al contrario essi (o meglio, i router, gli switch, etc. che li instradano) tengono conto delle condizioni di traffico e/o di eventuali malfunzionamenti per farli arrivare nel tempo più breve possibile. Il fatto che il Nord America sia così densamente cablato aumenta pertanto le probabilità che una comunicazione che dall’Italia deve andare in Estremo Oriente non prenda la via, geograficamente logica, di Suez e dell’India attraverso il Mediterraneo, il Mar Rosso e l’Oceano Indiano bensì quella opposta dell’Oceano Atlantico e del Pacifico.

Ma vi è un ulteriore aspetto, oltre alla cablatura ridondante, che contribuisce a rafforzare la posizione centrale degli Stati Uniti all’interno del sistema di comunicazioni globale: l’affermazione di quel paradigma tecnologico che prende il nome di cloud computing e grazie al quale è possibile (semplificando all’estremo) accedere a risorse hardware e servizi erogati in remoto da un provider. Al di là della definizione, che può sembrare nebulosa (giusto per restare in tema), con il cloud abbiamo a che fare quotidianamente, spesso in modo non consapevole, tutti noi: per esempio ogni volta che pubblichiamo una foto su Facebook, su Instagram o su Flickr oppure carichiamo un file su Dropbox o su Gooogle Drive, stiamo facendo uso di un servizio basato sulla nuvola; “fisicamente”, infatti, stiamo salvando quella specifica foto o quel determinato file su un server di proprietà di queste aziende, server situato a sua volta all’interno di enormi data center (DC).

Si da il fatto che la stragrande maggioranza di essi sorga nel territorio degli Stati Uniti. Anche prendendo con estrema cautela i dati presentati sul sito Datacentermap.com (in quanto conferiti su base volontaria) il predominio statunitense in questo settore del computing è schiacciante: i DC presenti all’interno degli States ammonterebbero a ben 1365 in confronto, solo per citare alcuni paesi con ambizioni da grande potenza o perlomeno da potenza regionale, ai 209 del Regno Unito, ai 178 della Germania, ai 77 dell’India ed agli appena 50 della Cina. L’egemonia sarebbe altrettanto schiacciante per quanto riguarda quei data center dedicati specificatamente ai servizi cloud (vedi fig. 3): alle 124 strutture presenti sul suolo statunitense farebbero da contraltare i 26 del Regno Unito, i 18 della Francia, i 6 dell’India, i 4 del Brasile ed i miseri 3 della Cina e del Giappone [8].

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Figura 3. I cloud server nel mondo

È questo il motivo per cui, quando condividiamo una foto con il nostro amico che abita a pochi isolati di distanza da noi, quest’ultimo per visualizzarla deve andare a recuperarla all’interno del server di turno collocato in Pennsylvania o nell’Ohio. Ed è questo, per andare al nocciolo della questione, il motivo per cui l’NSA, come svelato dal Datagate, ha potuto “spiare” le conversazioni ed intercettare i (meta)dati di milioni di cittadini del mondo senza di fatto avere la necessità di compiere operazioni in alcun Paese straniero: i dati, infatti, venivano “intercettati” in quella parte finale del percorso effettuata sul suolo degli Stati Uniti [9].

Sullo scandalo aperto dalle rivelazioni dell’ex agente/analista Edward Snowden non intendiamo dilungarci; in definitiva esso non ha fatto altro che confermare ciò che sotto sotto tutti sanno ma che nessuno ammette apertamente: anche tra alleati (figurarsi poi tra nemici) tutti si spiano vicendevolmente. E che le infrastrutture di telecomunicazione, assieme ai device (cellulari, smartphone, tablet, etc.) che vi si appoggiano, siano percepiti dalle agenzie di intelligence come potenziali punti deboli o cavalli di troia lo dimostra il “caso Huawei”.

L’azienda cinese, uno dei leader mondiali nella produzione, oltre che di smartphone, di apparecchiature per le reti Internet, per i data center, per lo storage, etc. è sospettata, peraltro assieme all’altro colosso ZTE, di porre minacce, rispettivamente, alla privacy ed alla cybersecurity di quei cittadini e di quei paesi che ne fanno uso. Un rapporto stilato dal Comitato permanente sull’intelligence della Camera dei rappresentanti non lascia dubbi interpretativi [10]: la premessa è che esistono legami provati tra i dirigenti di Huaweii, apparati del Ministero della difesa e del Partito Comunista Cinese al punto che «Chinese telecommunications companies provide an opportunity for the Chinese government to tamper with the United States telecommunications supply chain». Se la minaccia è tangibile, le contromisure suggerite sono drastiche: non fare commesse all’azienda cinese e, qualora ciò non sia possibile, rendere più rigidi i controllo sui suoi prodotti; scoraggiare od impedire eventuali operazioni di takeover e di merge & acquisition; pretendere trasparenza dal punto di vista finanziario; vigilare sulla correttezza delle politiche di penetrazione del mercato (ritenute eccessivamente aggressive e rese possibili in virtù dei rapporti privilegiati con le banche di stato).

Sulla stessa lunghezza d’onda si sono messi i governi di Londra e di Canberra. Il primo ha scelto una strada più soft (in sostanza ha imposto di creare un centro di ricerca sul suolo britannico, supervisionato da esperti appartenenti ai propri servizi) mentre il secondo una via decisamente più dura: l’esclusione di Huawei dai ricchi progetti di espansione della rete a banda larga nella terra dei canguri. La risposta di Pechino non si è fatta attendere: la minaccia di far saltare l’accordo per la realizzazione di una free trade area trai i due Stati [11].

Insomma, la questione è spinosa tanto più che si potrebbe ripetere un film già visto: la mancata fiducia reciproca nell’ambito della sicurezza porta ad attriti nella sfera economica e, di qui, a ben più gravi ripercussioni nelle relazioni bilaterali.

La digressione sul caso Huawei è funzionale all’analisi in corso perché si da il caso che l’azienda cinese, attraverso la sussidiaria Huawei Marine, sia  attiva anche nel settore delle dorsali primarie ed in particolare nella produzione ed installazione di quei prodotti, come branching unit e ripetitori, che abbiamo visto costituirne i gangli vitali. Non deve dunque destare stupore se gli Stati Uniti, che accentrano su di sé con evidenti finalità la rete globale di cavi, non vedono con favore l’attivismo con il quale Huawei – percepita come diretta emissaria di Pechino –  ne sta occupando gli snodi [12]. Un ulteriore capitolo di una saga che negli anni a venire ci riserverà sicuramente nuovi colpi di scienza.

Finora abbiamo considerato le dorsali di cavi in fibra come una infrastruttura tanto vitale quanto vulnerabile per la vita degli Stati; un’infrastruttura, pertanto, che è nel contempo oggetto della contesa e luogo dello scontro. Sulla natura di quest’ultimo va osservato come esso non lasci sul campo morti e feriti: tutto infatti si muove nell’ambito delle attività di cyberwar e di cyber espionage, nelle quali si tende ad evitare il più possibile di arrecare danni materiali a quelle Reti che peraltro servono per “spiare” il nemico e per penetrarne le difese. Quanto lontani i tempi della I Guerra Mondiale, quando apposite unità posa/taglia cavi erano in servizio nelle principali marine con il preciso compito di interrompere, tranciandone i cavi, le comunicazioni nemiche!

Alla luce del nuovo contesto cyber tutto ciò non è ipotizzabile e non deve dunque  stupire se, guardando alla storia recente, i (frequenti) danni sono stati provocati o da pescatori (che usano reti a strascico nelle quali si impigliano i cavi) o dalle ancore delle navi oppure da eventi naturali calamitosi. Piuttosto sorprende che le reti di telecomunicazioni non siano finora state prese in seria considerazione come obiettivi da parte del terrorismo internazionale (non ci dilunghiamo nel descrivere il caos ed i danni che una simile azione provocherebbe). A riguardo va detto che ottimi bersagli sarebbero, piuttosto che i cavi stessi, i cable landing point: questi ultimi infatti sono presenti in un numero assai limitato e questo perché, al mondo, non sono poi così numerose le zone idonee in cui far riemergere i cavi. È infatti preferibile che il tratto di mare antistante ad un CLP non sia molto trafficato da pescherecci, mercantili ed altre navi di sorta, che il fondale sia sabbioso (i sassi e le rocce potrebbero infatti coprire / danneggiare i cavi) e che non vi siano forti correnti marine. La carta geografica in figura 2 è illuminante anche in questo senso: esistono infatti alcuni punti (Singapore, Suez, Long Island ed in generale l’area attorno a New York, la Cornovaglia con Skewjack e Bude, la nostra Mazara, Hong Kong) nei quali si concentrano decine di cavi. Considerando poi come queste infrastrutture siano di norma prive di qualsiasi valida difesa, i timori che un attacco potrebbe avere pieno successo sono fondati ed, al contrario, l’impressione è che a livello politico-decisionale vi sia – paradossalmente – scarsa consapevolezza dell’importanza strategico-militare dei CLP (basta cercarsi sul Web le foto di alcuni di essi per farsi quest’opinione).

Sarebbe in altri termini auspicabile che, nel momento in cui vengono definite le politiche di sicurezza nazionali, si tenesse in debito conto della necessità di mantenere aperte, oltre alle rotte commerciali ed ai canali di approvvigionamento energetico (gasdotti ed oleodotti), anche le dorsali Internet e garantendo la sicurezza/protezione dei punti in cui esse prendono terra. Farlo non sarebbe un aggravio particolarmente dispendioso poiché, come si avrà già avuto modo di osservare, queste linee “calde” spesso e volentieri si sovrappongono (canale di Suez, stretto di Gibilterra, stretto di Malacca e via di questo passo) ed i cable landing point sono presenti in un numero complessivamente limitato [13].

Non è possibile concludere questa analisi senza affrontare un ulteriore aspetto che sembra confermare la tesi, fin qui sostenuta, dell’esistenza di un nesso tra cavi sottomarini ed elaborazione delle politiche estere e di difesa: ci riferiamo alla sopravvivenza degli ultimi possedimenti coloniali (in genere si tratta di sperdute isole in mezzo agli oceani), sopravvivenza che in molti casi sembra trovare una giustificazione nel passaggio, nelle loro acque, proprio di cavi sottomarini.

Emblematico quanto avviene nell’Atlantico: uno dei due cavi che collega direttamente l’Africa al Sud America transita “casualmente” nei pressi della britannica Sant’Elena [14]; spostandoci nella parte settentrionale dello stesso Oceano non si può non notare, sempre per restare nei domini di Sua Maestà, come per le Bermuda passi il Globenet, uno dei due cavi che mette direttamente in comunicazione Nord e Sud America evitando di passare per gli affollatissimi Caraibi (dove peraltro i possedimenti francesi, olandesi ed inglesi abbondano).

Interessanti esempi si trovano anche nell’Oceano Indiano: qui il SAFE, che dal Sud Africa si snoda fino alla Malaysia (con diversione verso l’India), ha tra i suoi intermediate landing point Saint Paul, Isola di Reunion, Dipartimento d’Oltremare Francese. Reunion a sua volta è collegata con l’ex colonia del Madagascar (questa vasta isola, per la cronaca, ha un solo collegamento alternativo con l’Africa) e con Mayotte, altro possedimento francese, e di qui con il Kenia.

I possedimenti francesi nel Pacifico (Nuova Caledonia, Polinesia francese), al contrario, pagano la loro posizione periferica: i cavi li collegano, rispettivamente, all’Australia ed alle Hawaii, sono poco più che dei rami morti nell’ambito del Pacifico Meridionale [15].

Nel Pacifico semmai a spiccare è il caso di Guam, Territorio non incorporato degli Stati Uniti, autentico crocevia, al pari delle Hawaii, dei fasci di cavi che percorrono il Pacifico tanto lungo l’asse Est-Ovest quanto lungo quello Nord-Sud.

È oramai un luogo comune affermare che nella società odierna, altamente informatizzata e digitalizzata, l’accesso è un diritto. La facoltà di esercitare questo diritto, speriamo di aver dimostrato in quest’analisi, non è così automatica e scontata. Le dorsali di telecomunicazioni infatti, seppur soventemente create da consorzi multinazionali in ottica collaborativa e con il fine di unire e rendere più vicini Stati e popoli, sono in realtà da sempre oggetto di una lotta per il loro controllo. Del resto non potrebbe essere altrimenti: troppo elevato il loro valore in termini economici, sociali, militari, etc.

Com’è naturale che sia, sono gli Stati Uniti a recitare la parte del leone ed a porsi, quanto più possibile, al centro del network; altrettanto naturalmente vi sono Stati che adottano le opportune contromisure e reagiscono. Abbiamo spiegato, a riguardo, come il governo cinese sia sospettato di usare le sue aziende come “cavallo di Troia”.

Pechino, ovviamente, non è l’unica forza in campo così quello dei cavi, sui quali ci siamo soffermati, non è e non sarà l’unico luogo della battaglia. Nella continua ricerca di vie di comunicazione alternative, che abbiamo visto rappresenta una costante nel corso della storia, è altamente probabile che negli anni a venire assisteremo ad una ulteriore, vigorosa crescita del canale satellitare. Il funzionamento di quest’ultimo, per sommi capi, è già stato descritto e si è anche ricordato che richiede ingenti investimenti e notevoli capacità tecnologiche. Il club degli Stati capaci di realizzare un satellite e di mandarlo sullo spazio con un proprio razzo vettore è ancora relativamente ristretto, specie in raffronto al lungo l’elenco degli aspiranti. Ma considerando che molti di essi sono tra i protagonisti delle più spettacolari perfomance (economiche e tecnologiche) degli ultimi anni c’è da scommettere che il raggiungimento di simili obiettivi sia solo una questione di tempo. Nei prossimi anni assisteremo in altri termini alla da lungo tempo preconizzata militarizzazione dello spazio; quando questa sarà avvenuta, la lotta per il controllo delle comunicazioni globali si trasferirà dalle profondità marine a sopra le teste di tutti noi.

* Simone Vettore è Dottore in Storia Contemporanea (Università di Padova)

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[1] Vedi Severed cables disrupt Internet.

[2] Per un elenco completo, con tanto di mappa interattiva con indicate le rotte ed i landing point (ovvero le stazioni a terra dove i cavi riemergono), si rimanda al seguente indirizzo: http://www.submarinecablemap.com/#/.

[3] Per un elenco in ordine cronologico (fino al 2012) dei cavi atlantici si veda questa pagina: http://atlantic-cable.com/Cables/CableTimeLine/atlantic.htm.

[4] Ovviamente oltre alla parte sommersa c’è anche quella emersa, ma essendo la prima quella che collega i vari Stati (assumendo perciò anche un valore nell’agone delle relazioni internazionali), è su essa che verrà principalmente appuntata la nostra attenzione.

[5] Una costellazione può tranquillamente essere costituita da alcune centinaia di satelliti; un ulteriore fattore che fa accrescere i costi (il che spiega perché le offerte relative ai servizi Internet via satellite hanno ancora prezzi decisamente sopra la media) è che le stazioni di uplink, per poter inviare dati in modo adeguato, consumano moltissima energia (la ricezione è, invece, un fatto sostanzialmente passivo).

[6] Vedi O. Fletcher – J. Osawa, Rush to Fix Quake-Damaged Undersea Cable.

[7] Mazara del Vallo è un cable landing point di importanza vitale per il nostro paese; da esso transitano, oltre al citato Columbus III, il SEA-ME-WE 3 (che segue una rotta simile al SEA-ME-WE 4 ricordato all’inizio di questo articolo ma con la differenza che ad un tratto si dirama pure verso l’Australia) ed i numerosi cavi diretti verso l’Africa settentrionale, Malta ed il Levante. Importante anche il ruolo di Bari per i collegamenti con i Balcani meridionali ed Israele.

[8] Vedi  http://www.datacentermap.com/. Si ribadisce l’importanza di prendere come puramente indicativi questi dati. In particolare i numeri della Cina appaiono inverosimilmente bassi.

[9] Del resto, qualora si fosse operato fuori da confini nazionali, sarebbe stata la CIA a dover scendere in campo.

[10] U.S. Governments, Permanent Select Committee on Intelligence, Investigative Report on the U.S. National Security Issues Posed by Chinese Telecommunications Companies Huawei and ZTE, disponibile al seguente URL: http://goo.gl/J6NdA.

[11] Vedi B. Pezzotti, Una guerra di spie minaccia i colloqui tra Australia e Cina sul libero scambio.

[12] In un proprio comunicato stampa Huawei annuncia, con giusto orgoglio, di aver lavorato, tra le altre cose, al miglioramento delle reti / dorsali Hibernia, CAT e pure all’“italiana” Med Nautilus, http://www.huaweimarine.com/marine/marine/commonWeb.do?method=showContent&webId=26.

[13] Per l’Italia assolutamente centrale è lo stretto di Sicilia, con le numerose pipeline provenienti dal Nord Africa (Algeria e Libia in primis), le numerose dorsali primarie disposte tanto lungo l’asse Nord – Sud che Est – Ovest, i CLP di Mazara, Trapani e Palermo, il traffico mercantile, il flusso di migranti, etc.

[14] Per la più settentrionale Ascension passò fino al 1993 il SAT 1, che collegava il Sud Africa al Portogallo (via Azzorre) e di qui al Regno Unito; in precedenza l’isola aveva ospitato una stazione del telegrafo così come vi erano transitati cavi verso Buenos Aires e Rio de Janeiro. Si veda http://www.atlantic-cable.com/CableCos/Ascension/.

[15] Pertanto, diversamente dal caso britannico, quello francese sembra rispondere piuttosto a logiche commerciali che strettamente strategiche; spesso infatti troviamo coinvolta France Telecom, vuoi direttamente vuoi come azionista dei vari operatori locali (come  OPT) che, a seconda dei casi,  provvedono alla realizzazione delle dorsali (in proprio o consociandosi in consorzi internazionali).

Photo credit:

Fig. 1: F. Granelli, http://disi.unitn.it/~granelli/mobile/05-com_satellitari.pdf

Fig. 2: http://www.telegeography.com/telecom-maps/index.html

Fig. 3: Screenshot da http://www.datacentermap.com/cloud.html

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