Nei diciassette anni che sono ormai trascorsi dalla mia prima visita, ho girato la Polonia in lungo e in largo. Ho assistito alla trasformazione di Varsavia da triste dormitorio postcomunista a città piena di luci, di negozi, di colori. Mi sono bagnato i piedi nell'incredibile grigio acciaio del Baltico e ho camminato per i sentieri dei Tatra. Ho bevuto birre deliziose all'ombra del campanile della chiesa di Maria nella piazza del mercato di
Cracovia e sorseggiato voluttuose cioccolate con panna da Wedel a Varsavia. Ho mangiato in ristoranti a cinque stelle e in improbabili chioschetti dentro stazioncine periferiche. Eppure alla fin fine se dovessi nominare quello che secondo me è il
proprium della Polonia parlerei dei piccoli paesini di campagna. La loro bellezza non è di quelle che cedono al facile pittoresco: sono gruppi di casette senza pretese, con davanti un po' di giardino e dietro l'aia e la porticina che dà accesso al campo. In estate è un paesaggio verde d'erba e giallo di fieno e di grano. E sopra questi verdi e questi gialli, lo sconfinato cielo della Polonia con le nuvole spinte incessantemente dal vento. Quel vento che muove anche le foglie dei pioppi e dei castagni facendole stormire con un suono che è la musica stessa della pace.
Bisogna viverci per un po', dentro questo verde e sotto questo cielo. Bisogna dare loro il tempo di entrarti dentro. E allora diventano una specie di piccola oasi dell'anima. Un posto a cui si può fare ritorno per provare qualcosa che se non è felicità la ricorda maledettamente da vicino.
La casa di Justyna nel Mazowsze nordoccidentale.