Quando ero piccolo, pensavo, immaginavo, che avrei potuto fare, diventare, raggiungere cose, persone, luoghi, che ormai ho dimenticato, ma sognavo. Da adolescente, cercavo d'impegnarmi, emulando modelli impegnativi, in un'ambiziosa serie di conquiste, che andavano da quelle sociali a quelle carnali, senza dimenticare quelle culturali, ma traccheggiavo, dubitavo, e qualche volta m'imboscavo. Ma ancora sognavo. Nei miei vent'anni, nonostante avessi la parvenza di un progetto, mi dedicavo troppo ai collaterali ed annacquavo l'intensità dell'intenzione, e rimandavo, mi esercitavo nella mia più riuscita interpretazione: procrastinavo. E sognavo, con gli occhi aperti, degli obiettivi meno alti e più concreti, e con un po' di sudore e di fortuna, mi avvicinavo. Mentre cavalcavo l'onda che avevo scelto, anche se qualche luce l'afferravo, promettevo - come si dice - forse qualche volte mantenevo, imitavo, però dentro ero già pronto a rassegnarmi, anche se ne incolpavo la sfortuna, e non riconoscevo quanto potere c'è nella responsabilità, così convinto che la responsabilità fosse solo un dovere da sopportare. E sognavo, senza molta speranza e ancor meno fiducia, quindi, praticamente, vegetavo. Nel mezzo del cammin di quella vita, nella selva oscura mi infognavo, senza rispetto di me, nascondevo la testa sotto la sabbia, rimuovevo, rinnegavo, e recitavo - senza contratto - a tempo indeterminato. Ché la diritta via era smarrita. E certamente sognavo, come sogna un naufrago, che arrivasse una scialuppa o un'onda anomala, una soluzione, in un senso o nell'altro, che credevo fuori dalla mia portata. Mi sbagliavo. Sorpreso dalla possibilità imprevista, mi entusiasmavo, facevo salti quantici, mi trasformavo, e lasciavo dietro di me zavorre antiche. Sperimentavo, osavo, mi sfidavo. Qualche volta, ovviamente, esageravo. Ma sognavo di nuovo, rigirandomi dalla parte opposta del cuscino, e mi dicevo che stavo sognando e desideravo che si dissolvesse il sogno che sognava me, mentre sognavo di svegliarmi veramente dal sonno di una vita. E camminando incontravo nuovi sogni, che suscitavano nuove speranze e nuovi orizzonti ma sollecitavano scelte radicali, provocavano, smascheravano. E sognavo di realizzare il sogno più costante, quello più nascosto e finalmente riconosciuto, di poter essere quello che sono - come dicono ormai tante pubblicità - senza dover scalare l'Himalaya, o digiunare quaranta giorni e quaranta notti, senza più bisogno di prender bastonate in testa da qualche compassionevole maestro. Sognavo, e se il tempo in cui si svolge la mia vita è l'imperfetto, il motivo è proprio questo: che so'gnavo.
Sì, sono ignavo. E abbandonare la mia ignavia è un sogno, che faccio quando sogno di esser sveglio. Per realizzarlo, tanto, ho tutta la vita.
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