Attratto anche dalla peculiarità del titolo scelto dall’autrice (piuttosto forte, a mio modo di vedere, dato che mi pareva fin dal principio difficile che Sofri avesse usato un concetto accostabile a «vile» per riferirsi ai compensi), ho cercato di vederci chiaro. Il direttore del Post stava rispondendo a una serie di domande al Festival del giornalismo e, tra gli altri argomenti affrontati, a un certo punto ha detto:
Io non credo che il lavoro debba essere pagato. Io credo che qualunque tipo di lavoro possa conoscere anche delle retribuzioni, delle soddisfazioni più varie che non sono necessariamente monetizzate. Trovo bizzarro che noi stesso che andiamo dicendo che la nobiltà del nostro lavoro deriva da altri fattori, come il servizio alla comunità o la qualità dell’informazione, poi pretendiamo allo stesso tempo che questi aspetti vengano quantificati in sistemi economici e monetari. No, esistono quantità di altre motivazioni e occasioni in cui possiamo liberamente lavorare gratis senza sentirci sfruttati. Anche io, qui, al Festival del giornalismo, lavoro gratis.
Premessa a quanto sto per scrivere: ho letto, su una bacheca Facebook, il commento di una ragazza presente all’incontro che sostiene che il senso dell’intervento di Sofri nel suddetto articolo viene stravolto, fino a essere reso portabandiera di una posizione che non aveva intenzione di tenere. Ciò detto, rientro nei confini del mio vissuto e vi parlo un po’ di me. Due anni fa ero un ragazzo con una grande passione per la scrittura e poche possibilità di mettersi in gioco. Come davvero tanti altri. Io però ho scritto a una persona, che si chiama Francesco Costa e lavorava (ci lavora ancora) al Post. Francesco mi ha dato qualche dritta per spiegarmi come potevo fare a coltivare quella mia passione, mi ha fatto l’in bocca al lupo di rito, dopo qualche email mi ha scritto «se ti va, puoi mandarci qualcosa per il Post». L’ho fatto molto volentieri, e di corsa.
A oggi ho scritto otto articoli per quella testata, se non erro, distribuiti in un periodo di diversi mesi. Non ho ricevuto alcun compenso, ma grazie a essi sono riuscito a muovere i primi passi in un settore chiuso a compartimenti stagni, in cui difficilmente avrei potuto “entrare” in altro modo, ho ricevuto consigli preziosi e qualche insegnamento che mi ha indicato la proverbiale retta via. Con un po’ di fortuna – e spero anche qualche merito – il tempo è passato e mi si sono aperte delle porte. Non mi sognerei mai di lamentarmi per non essere stato pagato da Sofri e dal Post, e la ragione è semplice: ciò che stavo facendo era sì lavoro, ma era soprattutto la messa alla prova di un esordiente in un ambito sui generis come quello dei media italiani.
Quel che voglio dire, qui, non è, ovviamente, che nel giornalismo “si può anche non pagare”. No, anzi – e il problema, semmai, in questo senso è proprio di chi ha il vezzo di non onorare accordi e scadenze di pagamento. È che Sofri dice una cosa molto più semplice e banalmente condivisibile: «esistono quantità di motivazioni e occasioni in cui possiamo liberamente lavorare gratis senza sentirci sfruttati». Il tentativo di fare il giornalista, oggi, in Italia è fra le occasioni che fanno da discrimine tra lo sfruttamento e la comprensibile prassi di un settore in crisi e drammaticamente basato sul “farsi conoscere”. Che Sofri passi come cattivo di turno per aver riportato gli indignati seriali alla realtà, beh, è un prezzo che personalmente credo valga la pena pagare.
Leggete questo pezzo di Michele Azzu, una risposta a Sofri jr. che ritengo ad alto tasso di straw man. Silvia, la volontaria del Festival perugino ivi presa a modello della gioventù precaria, deve ancora finire la specialistica. Se le è capitato di lavorare «tutti i giorni per due o tre mesi seguendo le elezioni» per 50 euro, credo che ciò vada ben al di là del compromesso di fatto indicato da Sofri. Se le sono stati promessi soldi e non è stata pagata, il problema è un po’ diverso (anche per la legge italiana, converrete). Per quanto mi riguarda, meglio chi di soldi non ne promette dall’inizio e si comporta onestamente, mettendo sul piatto ciò che può offrire (che spesso no, nel giornalismo non attiene soltanto a un piano economico). In Italia oggi il mercato dei media è quello che è: saturo, ambiguo, senza una direzione chiara da prendere, fatto di licenziamenti e precarietà a ogni livello. Se i soldi non ci sono per contratti e assunzioni, dubito che ci siano molte testate in grado di pagare un esordiente privo di ogni esperienza e con capacità da affinare.
Certo, indignarsi è più semplice. C’è chi risolve con un crucifige anche la più ingarbugliata delle matasse. Ma la realtà mi pare diversa. Se il lavoro e i soldi mancano, purtroppo non si creano dal nulla. A questo punto, nei casi di cui parlo, l’alternativa tra cui scegliere diventa lavorare gratis o non lavorare proprio, mettendo da parte il sogno della carriera giornalistica e cercandosi qualcos’altro. Io la mia scelta l’ho fatta. E non sono soltanto felice, ma anche riconoscente a chi di dovere.
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