Sogni di Pietra
di Giovanni Mariotti
Intorno al 1865 un postino fece un sogno a Hauterives nella Dróme. Il postino si chiamava Cheval. Nel sogno Cheval aveva costruito una Cosa, ma non sapeva se si trattasse di un palazzo o di un castello o di una grotta. Quell'immagine fluida e indecifrabile gli restò a lungo impressa nella memoria. Passarono gli anni: Cheval aveva dimenticato il suo sogno, quando un giorno, camminando nella campagna, inciampò in una pietra e rischiò di cadere. La pietra era una sorta di tufo dalla forma bizzarra, e Cheval la raccolse e se la mise in tasca. Nei giorni successivi trovò altre pietre ancora più belle. In quelle concrezioni irregolari gli pareva di scorgere «ogni sorta di animali, ogni sorta di caricature». Così a volte accade di scorgere figure transitorie nella forma di una nuvola o in una macchia su una parete. Cheval si ricordò della Cosa vista in sogno e sentì che era affine a quelle pietre.
Secondo una tradizione cinese, «a est di Shang-tu Kublai Khan eresse un palazzo secondo un piano che aveva visto in sogno e che serbava nella memoria». Il palazzo di Kublai Khan era immenso: maestranze esperte erano state incaricate di tradurre in realtà il sogno dell'imperatore. Come Kublai Khan, anche il postino Cheval era stato visitato in sogno da un edificio, ma non c'erano maestranze a cui potesse affidarne la costruzione. D'altronde non sapeva nemmeno a quale categoria di edifici appartenesse. Era una grotta o una fontana, una tomba o un belvedere? Lo avrebbe saputo solo dopo averlo costruito. Ormai ogni giorno lavorava a quella chimera. Aveva letto chissà ove che un tempo a Hauterives c'era stato il mare. Forse gli era parso che l'edificio del suo sogno corrispondesse a qualche antica formazione madreporica: per questo aggiungeva conchiglie al conglomerato di cemento e ferro e ciottoli di tufo che si alzava nel suo orto in forme sempre più strane.
Ispirandosi a immagini viste nei libri, prese a modellare, «come ai tempi primitivi», ogni sorta di piante e animali, dagli elefanti agli orsi, dagli struzzi ai cactus, dai cervi ai palmizi; oppure alte e indistinguibili cariatidi a cui attribuì, come si potrebbe attribuirli a un albero o a una pietra, i nomi di Cesare, Vercingetorige e Archimede; o ancora, un tempio indù, la Casa Bianca, un castello, uno chalet svizzero dall'improbabile profilo. Ogni tanto gli veniva voglia di scrivere, su quelle superfici irregolari, informazioni sull'edificio e sulla sua costruzione, oppure un proverbio, un motto, un esortazione a ben vivere, giacché (almeno così si credeva nelle campagne) ogni opera dell'uomo deve contenere un insegnamento morale.
Che bel mestiere doveva essere il postino rurale ai tempi di Cheval! Si camminava a piedi nella natura, su sentieri e per strade vuote (quelle intorno a Hauterives lo sono ancora). Di Cheval si dice che per il suo lavoro percorresse ogni giorno più di 30 chilometri. Forse non è vero, perché, anche se le case erano sparse, non è detto che i contadini ricevessero molte lettere. Nel mondo contadino il postino aveva uno statuto intermedio, più umile certo di quello del medico o del notaio, ma caratterizzato in senso intellettuale dalla contiguità con la scrittura; per di più prendeva uno stipendio dallo Stato. Questo privilegio sociale dovette almeno un po' difendere Cheval dal trattamento increscioso che i villaggi sono soliti riservare ai loro matti.
Passavano gli anni e capitavano i primi visitatori. Erano soprattutto militari del vicino campo di Chambarran. Cheval ascoltava i loro elogi e le manifestazioni del loro stupore; se in quello che dicevano c'era qualche volta ironia, il suo candore gli avrà impedito di accorgersene. Un giorno volle scrivere la storia del sogno, della pietra in cui era inciampato, dell'edificio che aveva costruito. Quella breve relazione, a cui ho attinto, cominciava così: «Figlio di contadini, contadino io stesso, voglio vivere e morire per provare che anche nella mia categoria vi sono uomini che hanno genio ed energia».
Cheval avrebbe potuto lavorare al suo «palazzo» sino alla morte, aggiungendo guglie, colonne, bassorilievi. Invece nel 1912, dopo «10.000 giornate, 93.000 ore, 33 anni di fatiche», decise che l'edificio era finito. Forse sentì che l'opera ormai coincideva con il suo lontano modello onirico, o forse semplicemente se ne stancò. I dodici anni che gli restavano - ne aveva 76, sarebbe morto a 88 - li dedicò a costruire per sé e per la sua famiglia una cappella nel cimitero di Hauterives.
Non ricordavo dove avessi letto per la prima volta il nome di Cheval e non sapevo se il suo palazzo esistesse ancora. Forse erano rimaste solo poche pietre che non valevano il viaggio. Queste cose pensavo avvicinandomi a Hauterives nella Dròme. Avevo trovato la valle del Rodano sotto Lione intasata dal traffico e a Vienne il ristorante La Pyramide chiuso per restauri; poi avevo pranzato bene da Magnard, ma non era la stessa cosa. Vienne è molto bella: se ci capitate, visitate le chiese, il tempio di Augusto e di Livia, il teatro romano, i mosaici, prima di prendere la strada per Beaurepaire d'Isère e Hauterives.
Lasciata la riva del Rodano, il traffico di rarefa. Vi siete immessi su quel fittissimo reticolo di piccole strade che seguono senza sbancamenti tutte le pieghe del paesaggio e che insieme ai castelli e ai fiumi colmi e tranquilli rendono così attraente la Francia rurale. Dopo Beaurepaire un grande castello vi avverte che siete giunti a Hauterives e vi invita a visitare il palazzo ideale del postino Cheval: cosa che senza dubbio farete, giacché siete venuti apposta; non vi sono molte altre ragioni per venire a Hauterives.
Dunque il palazzo è là, al centro del paese. Ma non è un palazzo: non vi sono spazi da abitare. Come accade girando intorno a una montagna, il suo profilo muta continuamente. È indefinibile, com'era apparsa indefinibile a Cheval la Cosa del sogno. Mentre lo osservavo, mi è venuto da pensare che esisteva una tradizione colta a cui poteva essere assimilato: quella delle grotte, dei ponti veneziani, delle rovine, dei chiostri moreschi, dei padiglioni gotici, di tutti gli altri pittoreschi edifici che ornano i giardini. Architettura basata sul gioco della miniaturizzazione, e nella cui panoplia di stili si rivela l'educazione antiquaria fornita dalle accademie. Il palazzo di Cheval è invece l'enciclopedia di un autodidatta.
Non si può visitare il palazzo ideale senza un brivido. Non si possono leggere senza stupore le frasi che Cheval scrisse sulle sue pareti: «Questa meraviglia di cui l'autore può essere fiero sarà unica nell'universo»; «Un genio benefico - mi ha tratto dal niente»; «Questa roccia un giorno dirà molte cose»; «Dio-Patria-Famiglia. Hauterive, Dròme. Tempio della Natura»; «II sogno di un contadino»; oppure i versi che mette in bocca alla sua carriola e ai suoi utensili, raccolti in un piccolo sacrario nel suo palazzo.
Sono molte le cose in cui avvertiamo una parte di sogno, ma questo elemento onirico di solito viene elaborato e attenuato. Certamente le maestranze che furono incaricate di tradurre nella realtà il palazzo sognato da Kublai Khan avranno finito per adattarlo ai materiali costruttivi di cui disponevano e alle tradizioni cinesi. Ma il postino Cheval non poteva rivolgersi ad altri e non sapeva murare. Imparò giorno per giorno, amalgamando le pietre e gli altri materiali in un opus incertum da cui le forme sembravano nascere per proliferazione. Guardando oggi quella grigia sostanza si ha l'impressione di intravedere, dietro la grazia fantasiosa delle forme che l'artista ha creato o forse semplicemente aiutato a manifestarsi, l'oscura, porosa, incondita materia di cui sono fatti i sogni.
- Giovanni Mariotti - 21 aprile 1989 -