Guardarsi intorno sul sellino di uno scooter. Il traffico di un lunedì sera di luglio, sul Lungotevere, restituisce immagini spigolose, a un’altezza insolita. Le macchine immobili. Fa fresco. La prospettiva è sempre stata fondamentale. Il punto di vista cambia l’interpretazione.
Non sembra estate. Sta per piovere. Luglio benedetto.
Solo dopo saprà che agosto sarebbe stato peggio.
Si guarda indietro. Oltre il tunnel. I suoi occhi arrivano in cima alla lunga via, girano a sinistra, salgono, curvano, salgono, girano di nuovo a sinistra, entrano nel vialetto, nell’ospedale, nell’ascensore, nel corridoio del reparto, nella stanza dove suo padre rischia di morire. Restano accanto al letto.
È vecchio. È già oltre la media dell’aspettativa di vita. Non tornerà mai più come prima. Deve farci i conti, signora. Qualche anno fa sarebbe già morto.
Alcuni la chiamano signora, altri le danno del tu. La sostanza non cambia. La maggior parte è gentile. Alcuni sono brutali. Lei sta con se stessa, con le sue attese.
Il suo fisico ha sopportato troppo.
I suoi occhi restano accanto al letto, il suo corpo è sul motorino.
È martedì, 19 luglio.
Solo dopo saprà che ha rischiato di morire ancora, e ancora.
«Mi dispiace non poterti riaccompagnare», le dice Isabella.
«Hai già fatto tanto. Ti sei precipitata» le risponde lei.
«Non ho fatto niente. Perché questo è davvero niente».
«Invece per me è tutto».
Solo dopo saprà che non era niente in confronto a tutto quello che avrebbe ancora fatto per lei.
«E mi dispiace non poter rimanere».
«Non ti preoccupare». Lei sorride, ma Isabella, che guida, non può vederla. «È solo una presentazione».
Durante la presentazione del suo libro pioverà a dirotto. Lei guarderà dritto davanti a sé e non vedrà nessuno.
Parlerà, sorriderà, mangerà, tornerà a casa, dove non vedrà nessuno.
***
Ogni mattina, al risveglio, non riesce a respirare per il mal di stomaco.
Di peso, sul diaframma, i pensieri.
Ogni mattina sa che non ce la farà, ogni mattina dice che non ce la fa più, e ogni sera sa che la mattina dopo ricomincerà tutto da capo. Ogni giorno.
Il caldo la distrugge. Dimentica di bere. Dimentica di mangiare.
Ci sono parole che non vanno pensate. Ci sono immagini che non vanno dette.
«E invece passerà» dice Sabrina.
«Non passa, non presto», le risponde «E io non ce la faccio più».
«Ce la fai» dice Sabrina.
«Non ce la faccio da sola».
«Non sei sola. Hai te stessa».
Quelle mattine sono l’orrore dell’assenza e della distanza da se stessa. Sono la paura di entrare in ospedale e di non trovare suo padre nel letto. Quell’istante, ripetuto per due mesi e mezzo, ogni mattina, è la purezza del dolore. Un attimo così sublime e feroce da ucciderla e farla rinascere, ogni mattina.
Al risveglio spegne il ventilatore e ringrazia il suo corpo, che l’assiste ancora.
Di notte, le prime notti, ogni notte, sentiva suo padre nella camera accanto chiamare la gatta, alzarsi, andare in bagno. Poi lo sognava, il viso straziato e sofferente, che gridava.
Poco a poco, però, di notte gli incubi si sono diradati.
Ma la mattina non è mai cambiata. La mattina è sempre stata uno schiaffo crudele. Lei pensava, all’inizio, che prima o poi sarebbe diventata più gentile, che avrebbero fatto amicizia. Invece era sempre quel peso sul diaframma, sempre a un soffio dalla frantumazione, sempre la paura di andare in pezzi.
«Non ce la faccio, non ci riesco. È un mese e mezzo che vado avanti così. Fa caldo. Sono sola. Non ce la faccio».
«Ce la fai» dice Sabrina.
Il letto di suo padre è il 6. Secondo piano. Medicina riabilitativa. Ma lui non può alzarsi.
Vada a casa. Cosa fa otto ore al giorno qui? Vuole ammalarsi anche lei? Vuole che la ricoveriamo? Ci siamo noi qui.
Loro non sono niente per lui, perché lui riconosce solo lei. A volte.
Spesso ripensa al giorno dell’operazione. Al delirio del padre dopo l’anestesia. Al suo gesticolare insensato, alle sue parole incomprensibili. Ricorda che in quel momento lei non era più sua figlia, per lui.
Quando, il giorno dopo, lei ha messo piede nella stanza e gli ha chiesto: «Chi sono io? Mi riconosci?» suo padre si è battuto il palmo della mano sul petto, con un sorriso da bambino che l’ha fatta piangere di gioia, dentro.
Suo padre si è battuto il palmo della mano sul petto come a dire: «Sei me. Sei la mia carne. Sei il mio sangue».
Solo dopo si renderà conto di quanto era diventata brava a piangere di nascosto da suo padre.
***
Ci sono cose, situazioni, abitudini che dimentichi senza accorgertene. Ci sono oscurità che ti abbandonano per sempre quando cominci a intravedere una luce.
Lei non vuole dimenticare niente.
Fotografa il cielo sopra l’ospedale.
Fotografa la stanza.
Fotografa i corridoi, l’ascensore, i gatti nel giardino.
Fotografa gli alberi.
Parla con suo padre, anche quando suo padre non la capisce, non ricorda, non vuole parlare ma solo alzarsi. E non può, perché è legato con una pettorina alla sedia a rotelle.
Tenta di convincerlo a mangiare anche quando non vuole, e più di una volta lui la scaccia in malo modo. Lei piange.
Spesso parla al telefono. A volte racconta. Spesso si dà.
«Io non ce la faccio. Non ce la faccio più».
«Ce la fai» dice Sabrina.
«Sono sola. Sola. Come faccio? Sono sola con mio padre», le risponde lei disperata.
«Lo sei sempre stata. Lo saresti stata comunque».
«Sto male. Sono allo stremo. Sto male veramente».
«Un giorno alla volta», dice Sabrina.
«E quando sarà il momento, ci attiveremo» dice Isabella.
Lei non vuole dimenticare niente.
E quando lascia l’ospedale per andare in un altro ospedale, lei, folle, sente una stretta al cuore perché sa che lì gli hanno salvato la vita.
Guarda l’ingresso, guarda i cinque, sei scalini, i gatti che le girano attorno alle gambe, e pensa che i due mesi che ha vissuto lì dentro resteranno dentro quelle mura. Ricorda, in un istante, la sua disperazione, i suoi perché, la sua rabbia, il suo odio, il dolore, le preghiere, i desideri, la voglia di prendere il posto di suo padre in quel letto, purché lui si salvi, ti prego, ti prego. Da sola. Ogni mattina, ogni sera al ritorno, da sola, in una casa vuota. Ricorda il dolore di suo padre, i lividi su tutto il corpo, la cicatrice, il suo sguardo perso, le sue piaghe, le fughe in bagno per piangere, ricorda Milano, la sua ingenuità, ricorda perché la memoria sarà la sua salvezza, ricorda il bene e il male, non vuole dimenticare.
***
Quei trenta chilometri all’andata e al ritorno sono peggio di quanto potesse immaginare.
Il sole di inizio settembre è straziante.
Suo padre ha passato sedici giorni a letto. Immobile. Come il traffico del 19 luglio, sul Lungotevere.
Ma può camminare. Ha già camminato. Fatelo sedere, almeno.
Passa il tempo al telefono con i medici del primo ospedale.
***
«Mio padre torna a casa oggi».
«Il medico di reparto non ci ha detto niente».
«Mio padre torna a casa. Ho chiamato l’ambulanza».
Suo padre la guarda con gli occhi che gli brillano e le chiede: «Ma allora è vero?»
«Sì che è vero, papà. Ce ne andiamo».
E il suo sorriso la fa piangere di gioia, dentro.
«Siamo soli, papà. Siamo tu e io. Dovrai aiutarmi».
Gli infermieri e il medico di turno sono api impazzite da quella notizia. Le danno da firmare la cartella clinica. Lei firma e trema.
È l’otto settembre.
***
Giovedì 6 ottobre suo padre fa la prima rampa di scale, in discesa e in salita.
Lui è euforico, la fisioterapista incredula.
Non vuole ricordare niente di quei due mesi e mezzo, non vuole ricordare nessuno, benché sappia bene tutto quello che è successo, sia a lui che a sua figlia.
Lei invece vuole ricordare. Non vuole dimenticare niente.
Soprattutto se stessa.