E’ nelle sale, con grande successo, il film di Checco Zalone. Chi ne parla, afferma trattarsi di una pellicola comica.
C’è sicuramente del comico nel film “Sole a catinelle” ma l’etichetta “film comico” è riduttiva e fuorviante.
A scanso di equivoci dirò subito che questo genere di pellicole non è il mio preferito: io li definisco i films della nuova commedia all’italiana e in genere non mi piacciono. Non di meno, trattandosi comunque di spettacoli di evasione, non molto peggiori di tanti altri, ogni tanto vado a vederli.
Sole a catinelle ha un retrogusto amaro, dietro la patina di comicità che indubbiamente lo caratterizza.
E’ la storia di un italiano come tanti, ai tempi della crisi. Un italiano cialtrone, pasticcione, forse, in fondo, anche di buoni sentimenti, ma pur sempre un cialtrone. Basti dire, per inquadrare il personaggio (e l’epoca che vuole rappresentare) che lo Zalone dello schermo, appena si ritrova con un reddito, si riempie la casa di elettrodomestici e prodotti supertecnologici, tutti acquistati con prestiti ottenuti da finanziarie voraci nell’erogare prestiti, ma altrettanto, se non più, voraci nel passare alle diffide e ai pignoramenti per il recupero coattivo di quanto erogato (ovviamente con l’aggiunta di interessi e spese legali).
In qualche modo la sua storia ha dei richiami, non so se tutti volontari, al ducetto che, tra alti e bassi, ha guidato l’Italia nell’ultimo ventennio.
Come l’ultimo duce ha iniziato vendendo aspirapolveri; e come lui si rivolge alla pancia degli italiani, in comizi improvvisati e squinternati, predicando l’ottimismo come panacea di una crisi che non ha per niente radici di natura psicologica, come il ducetto e il suo ministro del tesoro hanno tentato di far credere al popolo italiano in una gestione del potere tanto ridicola quanto incompetente che, nel novembre 2011, ci ha portati sull’orlo dell’abisso (sono stati gli incapaci stessi a farsi da parte, lasciando il posto a Monti che, pur con tutti i suoi limiti e con una cura che a momenti ammazzava il cavallo che voleva invece curare, ci ha portati lontani dal baratro in cui l’Italia stava per precipitare).
Le analogie tra il personaggio portato sullo schermo da Zalone e l’indomito di Arcore non finiscono qui. Potrei citare ancora la sua avversione per il comunismo (penosa più che esilarante la scenetta in cui il figlio lo accusa di razzismo omofobico e lui, il papà cialtrone, sospira: “meno male, credevo che stessi per confessare di essere comunista); ancora più penoso il suo discorso (sempre rivolto alla pancia degli italiani) in cui Zalone si lamenta, a nome delle partite iva (espressione anodina che vorrebbe indicare l’elettorato potenziale del PdL-Forza Italia) delle maternità a carico dei datori di lavoro, auspicando che almeno si conceda al datore il diritto di mettere incinta egli stesso la lavoratrice (questo passaggio, a dire il vero, non solo è di pessimo gusto ma mi pare che infici il diritto della pellicola a definirsi un prodotto artistico; con linguaggio d’altri tempi questo film potrebbe definirsi addirittura ”reazionario”). E con le analogie mi fermo qui, non prima però d’aver sottolineato che Zalone è riuscito a infilare nel film anche la Massoneria (tutti sanno che Mister B. è stato tesserato alla Loggia P2 di Licio Gelli).
Insomma, da questo film non escono a pezzi soltanto gli psicologi, dileggiati e vilipesi nella loro professionalità al punto, che se fossi il Presidente di qualche associazione di settore, interesserei la Procura della Repubblica o promuoverei un’azione civile a tutela della categoria; ma dal film esce a pezzi l’Italia; non solo e non tanto per l’immagine che Zalone ne dà nella pellicola, ma per il fatto che gli italiani, decretando il successo di questo film (sinceramente scadente e dozzinale), hanno mostrato che il ventennio appena trascorso, non ha portato soltanto una tremenda crisi economica (sicuramente anche per congiunture internazionali negative) ma ha impoverito gli italiani anche su un piano culturale, appiattendoli sui gusti di una televisione becera e dalla facile battuta triviale che affonda l’umorismo in una volgarità che non è solo sessuofobica ma è anche e soprattutto di povertà artistica.






