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Solidale con chi?

Creato il 12 aprile 2010 da Lanterna
Tempo fa, mi è capitato di arrivare per vie traverse su un blog di una ragazza italiana che si è trasferita con il marito in Israele e là hanno avuto il loro primo figlio. L'ho contattata via mail e, giocoforza grazie al lavoro di mio marito, siamo finite a parlare di kasherut. È un argomento vastissimo e affascinante, ne parlerei all'infinito per tutte le sue implicazioni antropologiche, storiche, sociali, biologiche e nutrizionali.
In particolare, mi hanno colpito due aspetti della kasherut.
Prima di tutto, lo spirito con cui mi è stato spiegato il senso della kasherut: una forma di disciplina e di rispetto verso il proprio corpo e verso le risorse della natura, di cui non dobbiamo disporre a nostro piacimento e senza criterio.
Secondariamente, ho scoperto che un aspetto importante della kasherut è che il cibo sia stato prodotto nel rispetto delle regole del mondo del lavoro, senza sfruttare nessuno e pagando i dovuti stipendi + contributi.
In quest'epoca che sembra aver scoperto l'equo e solidale, gli ebrei alzano la manina e dicono: ma veramente noi ci avevamo già pensato da un po', e non solo per i Paesi poveri.
Già, perché noi il concetto di equo e solidale lo applichiamo a due ambiti: il Terzo Mondo e i fornitori dei gruppi d'acquisto solidali. Come se i cattivi fossero solo le multinazionali e le regole dei mercati generali.
Capita invece che il settore agricolo, insieme a quello dell'edilizia, sia quello dove il lavoro in nero e il mancato rispetto delle norme di sicurezza sono più diffusi. Oltre al lavoro sommerso vero e proprio, ci sono produttori che stipulano falsi contratti di lavoro occasionale e falsi contratti di apprendistato, per poi integrare in nero. Non parliamo poi del lavoro straordinario, che solo in rari casi (e in questo devo rendere onore ai nostri feudatari) viene dichiarato in busta paga.
Il fatto di essere aziende bio non fa nessuna differenza: nessuna certificazione garantisce il rispetto delle regole per quanto riguarda i lavoratori.
È vero che, almeno nel pubblico, l'esigenza oggi viene più sentita: le PA sono tenute a richiedere alle aziende fornitrici un certificato (chiamato DURC) in cui le aziende dichiarano di essere in regola con il pagamento dei contributi ai dipendenti.
Non mi risulta però che i gruppi d'acquisto o i distributori di prodotti bio chiedano garanzie di questo genere. In più (mi baso sulla mia esperienza di gruppo d'acquisto, risalente ormai al 2005-2006) mi risulta che la maggior parte dei fornitori dei GAS non emetta fattura o documenti equivalenti a fronte degli acquisti fatti, nemmeno quando sono ingenti o continuativi.
Probabilmente, forti della loro buona volontà e del pregiudizio positivo nei confronti del produttore, i gruppi d'acquisto pensano che basti conoscersi di persona e andare a visitare le aziende per evitare malintenzionati e non si pongono il problema di evadere le tasse.
Niente di più sbagliato: molti produttori vedono nei gruppi d'acquisto l'opportunità di bypassare i controlli di mercato e di applicare un margine impensabile nel mercato convenzionale. Non dico che siano tutti così, per carità, credo anzi che ci siano parecchi produttori che credono in un'economia alternativa e in un mondo di solidarietà reciproca. Ma ce ne sono anche molti altri che sono solidali solo col proprio portafogli, e che vedono i GAS come un'opportunità di smaltire i prodotti rifiutati dal mercato (anche solo perché fuori pezzatura o in esubero) e di guadagnare di più e con più sicurezza.
Ricordo per esempio un nostro fornitore di ortaggi: forniva una cassetta a peso e prezzo fisso, ma di cui non si poteva scegliere il contenuto. E c'erano periodi in cui ti ritrovavi 5 chili di insalata ogni settimana. Se cercavi di chiedere maggiore equilibrio, cercava di impietosirti con la storia del tipo "sono un povero ortolano dell'Oltrepò, qui non viene nient'altro, se mi metto anche ad accontentare le richieste di ognuno ci smeno...". Noi ci siamo stufati e ci siamo tirati fuori dal gruppo d'acquisto, ma mi risulta che molti siano andati avanti per anni ad essere clienti fissi di questo fornitore, che avrebbe avuto a questo punto anche la sicurezza economica per migliorare il meccanismo, ma non aveva nessun interesse a farlo.
Con questo, non voglio demonizzare i produttori né presentare i gruppi d'acquisto come degli allocchi. Voglio solo riflettere sul fatto che siamo molto svelti a stigmatizzare la multinazionale di turno (magari sulla base di un sentito dire che non tiene conto dell'effettiva realtà di un Paese - o magari con piena ragione, perché no?), ma non ci soffermiamo a valutare con occhio più critico la realtà che ci sta intorno. Bio ci sembra garanzia di un mondo meraviglioso e ideale, ma purtroppo nessun organo certificatore tiene conto di qualcosa che non sia la mera tecnica di coltivazione.
Pensiamo alle condizioni in cui vivono i raccoglitori di pomodori, pensiamo a Rosarno. Crediamo che invece i raccoglitori di pomodori bio vivano in ville con l'aria condizionata?
Pensiamo al costo della manodopera nei Paesi poveri. Sapete che in certi posti costa meno pagare le mondine che dare i diserbanti? È possibile che, se compriamo delle banane o del riso bio (ma non equi e solidali) dal Terzo Mondo, siano stati coltivati sfruttando in questo modo la popolazione locale. O magari non sfruttandola, perché un salario che a noi sembra miserrimo là è garanzia di sopravvivenza.
Credo però che sia ora di pretendere di più dai produttori, prendendo spunto dalla kasherut ebraica: non basta che coltiviate senza far male alla terra, voglio che coltiviate senza far male alle persone. Altrimenti vado a comprare dalla prima multinazionale che passa, che almeno non vanta aspirazioni di santità.

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