Benissimo. Ora che ho a tutti gli effetti smesso di essere un blogger, posso finalmente sentirmi sgravato di quel senso di responsabilità che mi obbligava a scrivere qualcosa di necessariamente sensato, e controllato, e documentato, come si addice a chiunque abbia dei lettori (o pretenda di averli) e, quindi, non a me.
Se devo pensare a un me letto da qualcuno, non mi vengono certo in mente otto anni di blog, né tanomeno i miei due romanzi editi, ma una decina di taccuini Moleskine persi in giro negli aeroporti, sui treni, in camere d’albergo, (o anche solo dietro quei mobili del salotto che, come è noto, fagocitano e digeriscono in un’altra dimensione spaziotemporale ogni oggetto caduto nel loro territorio), taccuini mai rispeditimi nonostante, ben consapevole della mia inguaribile malattia di smarrire tutto di continuo, mi sia sempre premurato di indicare l’indirizzo di casa nella pagina iniziale a questo preposta, promettendo – visto che il prestampato lo richiedeva – la lauta ricompensa di un abbraccio. Penso a quei taccuini come occasioni di lettura di cose mie da parte di estranei perché, potenzialmente, nel mondo ci sono circa dieci sconosciuti che, in mancanza di meglio da fare nella vita, possono passare lunghe ore seduti sul WC a liberarsi gli intestini mentre sfogliano le mie autoconfessioni più sbracate e intime.
Considerando quindi che affidare i miei segreti a un quaderno non significa garantirmi la privacy e la messa in sicurezza dei miei viaggi (interiori molto più che internazionali), mi sono chiesto quale fosse il posto migliore per continuare a confessarmi e ad autoanalizzarmi salvaguardando l’assoluto riserbo e i miei scheletri nella valigia. E, alla disperata ricerca di un luogo che mi assicurasse protezione e solitudine, ecco che ho trovato la soluzione perfetta: il web!
Sì perché… credo che nessuna realtà garantisca meglio di internet l’eremitaggio e la privatezza. Insomma, si ha la totale certezza di non venir notati depositando le proprie scorie e i propri tesori nello stesso identico luogo in cui chiunque abbandona ogni tipo di detrito – perle preziose o fetide deiezioni; il modo più efficace per eclissarsi è quello di mettersi bene in mostra in un contesto in cui lo fanno anche tutti gli altri.
Senza considerare che, come chiunque, ho da tempo smarrito anche la capacità di scrivere a mano (requisito indispensabile per riempire una Moleskine che, ahimé, non c’è verso di far entrare nella stampante), col risultato che i miei pensieri vanno più svelti e solleticano intuizioni più brillanti se formalizzati dalle dita che battono sulla tastiera.
Solo su internet ho davvero la possibilità di stare solo con me stesso, perché, oramai, appena mi stacco dal monitor del tablet o dello smartphone e per errore i miei occhi incontrano gli occhi di un altro essere digitante, entrambi siamo colti da un ansiogeno senso di invasione, di stupro, di vergogna che invece, sputtanandoci sui social network, avvertiamo come meravigliosa autoaffermazione, spesso addirittura corredata da un’illusione di partecipazione e appartenenza.
Finché userò un post per vomitare dolore, depressione, rabbia, gioia, noia, nessuno si accorgerà di me, confondendomi nella gran babele del rigurgito generale, e i miei scritti segreti buttati online rimarranno perfettamente inediti, anonimi, nudi e liberi. Al contrario, smettendo di comparire correrei il pericolosissimo rischio di attirare l’attenzione di qualcuno che, turbato dalla diversità del mio star fuori, si sentirebbe autorizzato a parlare anche in mia vece, con la mia voce, violentandomi l’individualità, negando la mia esistenza e cannibalizzando la mia anima nella più feroce e disumana delle maniere.