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C'è una scena all'inizio di “Somewhere” che contiene in nuce il film. Johnny Marco (Stephen Dorff), star del cinema che vive al mitico hotel Chateau Marmont di Hollywood, e al momento ha un braccio rotto, si sta guardando in camera l'esibizione privata di lap-dance di due splendide bionde identiche (per la cronaca sono le gemelle Karissa e Kristina Shannon): faccia un po' imbambolata, educato apprezzamento, anche un lieve applauso - e poi si addormenta (loro due, avvinghiate capovolte ai loro pali, scivolano giù silenziosamente, sempre a testa in giù, come in un cartone animato). Non è un episodio isolato: più tardi Johnny si addormenta durante i preliminari con la bocca sul pube di una bellona che ha rimorchiato. Sofia Coppola - regista e sceneggiatrice - offre una base concreta mostrando che lui mischia whisky e medicinali; nondimeno, è quasi una forma di narcolessia.
Come tutti i personaggi della regista, Johnny è lost. Nella scena assai divertente dell'intervista (Sofia, figlia di Francis Ford Coppola, è cresciuta nell'ambiente del cinema e sa bene di cosa parla), in mezzo alla ridda di domande simultaneamente banali e assurde, una giornalista gli chiede: “Chi è Johnny Marco?” - e lui imbarazzato: “...Ehm...”. Ricordiamo i misteriosi messaggi insultanti che lui riceve nel cellulare. Caratteristicamente la sceneggiatura ne lascia imprecisato l'autore, poiché quel che interessa è che essi rispecchiano (o rivelano) le domande che si fa il protagonista: chi cazzo credi di essere? che cazzo di problema hai? Se fosse un dottor Jekyll potremmo anche ipotizzare che se li manda da solo. In verità Sofia Coppola, che gioca sempre a carte scoperte, già in apertura del film, prima dei credits, mostra la sua Ferrari nera che passa quattro volte di seguito lungo il giro della pista, per dirci che Johnny Marco vive su binari obbligati.
In una splendida scena di disagio e spiazzamento, l'attore è in un laboratorio di effetti speciali a farsi fare il calco per fabbricare una maschera. Con la testa trasformata in un mostruoso uovo di materia plastica con solo due buchi per le narici, aspetta solo e immobile per 40 minuti (nella storia; comunque la regista tiene la mdp fissa su di lui ben più a lungo di quanto farebbe qualsiasi altro regista americano), mentre il sonoro amplifica la respirazione pesante e il suo deglutire. Poi prova la maschera, e vede nello specchio una realistica anticipazione di lui da vecchio. “Cazzo”.
La condizione principe presente nel cinema di Sofia Coppola è quella dello spaesamento. La sua domanda base è un “Dove sono?” che ha una preoccupante tendenza a trasformarsi in “Chi sono?”. Esistono registi che hanno la fortuna di girare un film il cui titolo contiene tutto il loro mondo; lei l'ha fatto con “Lost in Translation” - dove il viaggio di Bill Murray in Giappone era la grande metafora dello spiazzamento interiore. Lo spiazzamento non è il viaggio; il viaggio però lo traduce e lo ingigantisce, come una lente d'ingrandimento. Discendente ideale di Bill Murray, Stephen Dorrf in “Somewhere” si sposta solo episodicamente (nota però che ha un braccio ingessato: una frattura, potremmo chiederci, non somiglia a un viaggio?). Peraltro lo stato esistenziale dei personaggi di Sofia Coppola, viaggiatori o meno, è l'immobilità. Anche se Johnny va in Italia (ai Telegatti!, che la regista guarda con lo stesso distacco divertito delle bizzarrie giapponesi in “Lost in Translation”), la sua realtà più autentica è di stare seduto immobile sul divano a guardare nel vuoto, con gli occhi come coperti da una pellicola, in uno stato di leggera stupefazione. Si ritrova, nelle scene dell'albergo, quella lentezza del tempo – quella perplessa sospensione – ch'è tipica del cinema di Sofia Coppola. Anche le varie belle donne che si esibiscono seminude al divo tengono qualcosa dell'algida mise en scéne sospesa delle fotografie di Helmut Newton.
I protagonisti disorientati di Sofia Coppola - dalle “vergini suicide” del primo folgorante film a Bill Murray lost in translation a Maria Antonietta a Versailles - sognano tutti un “altroquando”, un somewhere, poco chiaro a loro stessi, e in genere irraggiungibile. Nel presente film, una sorta di rappresentante e nel contempo ispiratrice di quest'altra dimensione è la figlia undicenne Cleo (Elle Fanning), che l'ex moglie di Johnny gli scarica perché vuole andarsene per i fatti suoi. Cleo è l'incarnazione della ragazzina upper class beneducata e mai supponente. I suoi occhi attenti, educatamente giudicanti, spiazzano il padre e mettono in crisi la sua quotidianità di libertinaggio (a volte narcolettico). Grazie alla sceneggiatura e alla magnifica interpretazione, nonché all'alchimia creatasi fra Stephen Dorff e Elle Fanning, i momenti di vita quotidiana (quando Cleo cucina per lui e il suo amico d'infanzia, quando giocano sott'acqua in piscina, quando lei gli racconta “Twilight”) sono di assoluta dolcezza e insieme di stupefacente autenticità.
La scena nella parte iniziale di “Somewhere” in cui Cleo danza sui pattini sul ghiaccio è l'“altra danza” del film, contrappeso e contraltare della precedente, la lap-dance delle gemelle; Johnny all'inizio la guarda con la stessa espressione un po' vuota e si distrae – ma poi si appassiona. Fin dal primo momento Cleo rappresenta un “principio di realtà” che agisce sullo sbalestramento del padre – vedi il suo buon senso rispetto alla paranoia di Johnny circa le auto che li seguono. Se sulla carta tutto questo può far sorgere un sospetto di sceneggiatura eccessivamente conscia (che si ritrova nella scena in cui Johnny guarda un documentario su Gandhi in tv), è la naturalezza del personaggio a giustificarlo artisticamente. Su questa linea il film si sviluppa con musicale chiarezza e semplicità; fino a sfociare, dopo un confronto catartico del protagonista con la figlia, in un finale di sapore antonioniano o wendersiano che lascia aperte tutte le strade.
Sofia Coppola è l'incrocio di una poetessa con una sociologa – o una mezza sociologa, perché non è che analizzi e ricostruisca i riti, come Martin Scorsese, e tuttavia ha una perspicacia fulminante nel cogliere un ambiente, un'atmosfera, un mood. Tutto il suo modo di fare cinema si allontana da quello di suo padre. Francis Ford Coppola è italiano, operistico, massimalista; Sofia è americana e minimalista. Mostra in tutto il suo cinema uno sguardo distaccato che si avvale di una messa in scena sobria, quasi fredda, molto basata sul non detto. Il suo sguardo è insieme realistico e sognante, ed è questo a dare quella particolare vibrazione che attraversa, per metafora illumina, ogni suo film.
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