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Sono piccante

Da Occhidadonna

Sono piccanteHo incontrato la tua idea che era estate. Era una magia spinta, un ciuffo di sguardi bagnati. Si affacciava dalle tue labbra e la baciavo, curiosa, ogni volta che me ne capitava l'occasione. Continuavo a domandarmi come mai mi venisse voglia di prendere tutti i miei prossimi giorni e riempirli di risate. La tua idea correggeva la mia storia, con oggi intensi e diversi. Nuovi. Scivolava tra i pensieri come ghiaccio su ogni ieri, che slittavano indietro. Non avevo tempo, per fermarmi a raccoglierli: c'erano i nostri giorni di risate, da prendere. Non li ricordavo più, quelli di prima. Scivolavi come fuoco su ogni domani, che mi scottava nelle mani una voglia innata della tua attesa. La tua idea non è mai stata in un'intera frase. Ha camminato insieme a noi, in tutti le parole dei nostri oggi. Pazza. Viva. Accennata. Di notte mi copriva di sospiri; nel silenzio riuscivo quasi a capirla tutta, ma poi mi sfuggiva. La voglia mi depistava e dimenticavo cosa volevo capire e di capire. Perdevo il filo dei ragionamenti e seguivo solo la tua forza. Capivo me e te. Capivo un istinto che mi girava nella testa e lo chiamavo con nomi irripetibili. Eri un segreto vestito bene, che mi distraeva. Non riuscivo a mettere a fuoco il pensiero di te. Mentre ti guardavo, infuocavo. Intuivo solo desideri e sceglievo lamenti notturni. E ti chiamavo, ogni notte. Se chiudevo gli occhi, mi sembrava quasi di capire, per un attimo. Imparavo che il gusto della mia vita aveva il tuo pepe dentro: allegro, curioso. Giovane come un pensiero, quando l’hai appena ragionato. Piccante. Intuivo che, anche se t'avessi perso, saresti rimasto dappertutto, a insaporire le mie teorie con quest'idea che imparavo con te, pur avendola conosciuta per tutta la vita. E così è stato. Ogni volta che ci siamo detti addio. Ed è successo tante volte; tante quante ce ne vogliono per strappare radici: una non basta neanche a smuovere il terreno. Te la devi sudare la libertà, quando la felicità s’allarga. E pensare che ne ho avuto paura per anni, perché non dura. D’averla, dopo perderla, e poi? Nessuno mi ha insegnato come farne a meno. Con te avevo solo imparato a baciarla. Ma la felicità se ne va sempre. È un fatto.  Dura giorni, ore. A volte vive il tempo di guardare la bocca che ti sta per baciare e quello che viene dopo ha già altri nomi. La felicità è una risata: inutile sperarla per la vita. Mi toccava dalle tue mani, però. M’hai cambiata. Come ti cambia un bel viaggio, che quando torni vorresti raccontarlo, mostri foto e ci vorresti tornare, ma capisci che la bellezza era proprio in quella scoperta. Il ritorno non ti fa cambiare di nuovo. Altri viaggi non sono quello. Eppure mi legavano a te, sottili nastri di speranza, perché non volevo fuggire. Sarei voluta restare, quella volta, ma non l’ho fatto. Perché quel giorno che t’avevo perso, m’ero bruciata viva. Non riuscivo a perdonare i miei occhi, che ti avevano visto ancora mio, mentre ti perdevo. Per questo m’inceneriva, la mancanza. Accecava, e in quel dolore non vedevo più noi. Noi eravamo piacere, non ci appartenevano le fronti corrugate, gli sguardi tesi. Quando perdi, il desiderio ti fa vedere il passato. È quello, che brucia. Più del senso di sconfitta, fa male vedere ancora lo sguardo che ti voleva, proprio mentre non ti vuole più. Ammiri quello che potevi diventare, mentre sei già guasto. Ricordi sogni che non riesci più a tentare.   Insopportabile. La tua idea non se n’era andata. Noi ce n’eravamo andati. Le nostre mani dappertutto, se n’erano andate. Anche tutte quelle risate. I rimasugli di noi, però erano intrappolati nelle cose, come spettri; come adesivi, che anche se provi a toglierli, lasciano il segno della colla. Appiccicati. Bianchi. Devi grattare e a lungo, per liberartene. Eravamo attaccati negli oggetti che avevamo toccato, nei regali che c’eravamo scambiati. Nei souvenir di quei giorni perfetti. Erano ostacoli in cui inciampavo, mentre provavo ad allontanarmi da quei due che eravamo diventati. Insopportabili. Mille splendidi soli, eravamo rimasti, appoggiati nella prima fila della mia libreria. Foto dimenticate in un Hard Disk che non usavo da tempo e il biglietto del treno che avevo preso mesi prima, quando tornavo indietro, guardando di lato. L'offerta YouAndMe per risparmiare, quando ti telefonavo, e che non ho mai avuto voglia di modificare. Il ritaglio di un giornale appeso alla parete della mia scrivania; e la foto, che mi avevano scattato alla festa del tuo paese.  C’eravamo ridotti a parole nascoste dietro a una finestra chiusa, per non ferire quelli che sono venuti dopo. Censurati dietro un “non ne valeva la pena”, “non era per me” e giorni perfetti ci passavano dalla testa, a maledire l’invenzione, infiammandoci la gola, mentre recitavamo il tipico copione. Un giorno incastrato nello scontrino di un caffè, mezzo strappato e scolorito: questi eravamo. Quello che di noi era sopravvissuto. E poi, telefonate clandestine, nel cuore della notte, cercando pretesti per litigare, pur di continuare a dire Noi. Eravamo i resti di una cosa bella. Scampoli di seta. Tracce. Orme di un ballo di passi incerti. Niente a che vedere con quel tutto che avevamo conosciuto. Sprecato.   A parlarmi di noi, quella notte erano stati i tuoi fumetti, mentre li aggiungevo alle scatole di un trasloco che non avevo capito, finché lo scotch che gracchiava, non mi ha fatto sentire lo strappo della scelta: tu non me li avresti più letti, di notte, con la tua voce. Li avevo nascosti sotto ad alcuni periodici senza importanza. Credevo di poter imballare lo splendore, in una scatola dove avevo scritto "Riviste", con un pennarello nero. Ci sono verità che attraversano i confini che improvvisiamo.  Non si può scappare. Figuriamoci se può funzionare qualche giro di scotch color senape. Poi ho disseppellito la tua maglia, mentre riempivo la scatola dei vestiti estivi; quella che mi avevi regalato i primi tempi, col tuo odore, che ha dormito con me così tante volte che alla fine profumava di noi due. C'era rimasto incastrato il profumo di coppia, e mi bruciava le narici e da lì fino al petto. C’eri tu, in tutta la casa. Così, quella notte decido di rivivere l’addio, ancora un'altra volta, per convincermene, per ripassarmi la perdita. Ho bisogno di bruciarmi ancora: le ferite che non smettono di sanguinare, si chiudono con il fuoco. È un rimedio vecchio. Ho una scusa dolce: non ti avevo guardato gli occhi tutte le altre volte, in cui avevamo finito. Voglio guardare i tuoi occhi, mentre mi perdi; vedere se sei sexy comunque, anche mentre mi guardi fare la strada al contrario. Quando dire addio è inappropriato e arrivederci fa paura, che forma avrebbero le tue labbra? In quel saluto, che fa male in qualsiasi modo lo dici. La possibilità che tu sparisca sul serio, grida più forte delle cose che so: non eravamo fatti per sempre, tu e io. Mi sembra di precipitare e mi viene di salvarmi. Di salvarci. Per istinto, m’aggrappo ai sentimenti. Mi arrendo al fatto semplice che ti voglio, che è più facile mentire quando mancano mesi; quando arriva il giorno che significa fine, è tutta un'altra cosa. L’ultimo giorno fa tremare tutto, oltre alle mani che compongo il tuo numero. È notte fonda e ti telefono. Fuori nevica. Non so cosa dirti e non m’aspetto che tu mi chieda perché non sono lì con te, abbracciata come sappiamo fare noi. Proprio così dici: come sappiamo fare Noi. Allora lo chiedo anch'io: perché non sono lì con te, abbracciata come sappiamo fare Noi? I motivi li so tutti, ma mentre ti perdo, conosco solo strappi e te, dall'altra parte del telefono che mi stacchi la certezza, con la tua voce, a dirmi di tornare indietro. Piango la sconfitta, mentre discuto di rivederti. Non è tristezza, mi sento senza scelta. È la vertigine che ho sentito le altre volte, a farmi lacrimare volontà: ho un vuoto intorno e l'unica via che esiste ha la tua forma, le altre strade sono perdere. Non ci sono neanche, le altre strade. Me lo chiedi ancora, perché non sono lì con te, abbracciata come sappiamo fare Noi.  E allora ti dico: vieni. Lo decido mentre parlo e la paura che mi assale la mando giù, mentre accetto che è inutile che scappo. Sei ovunque. Sei nella mia casa e nella testa. Sei nel prima e nel dopo. Sei anche nei miei ricordi antichi, perché te li raccontavo e sorridevamo insieme o ci eccitavamo di quel po' che si salvava. Raccontandoti la vita, un po' ogni notte, ti ci ho fatto entrare. Ora che ci sei dentro, non riesco a divincolarmi. Sono rimasta avvinghiata ai lacci dei nostri pensieri, ai nostri modi di dire. Ancorata ai nodi della nostra complicità, non so come slegarmi e non vedo da dove parte il groviglio, per tagliarlo e sciogliermi. “Possiamo farcela”, mi dici ed io ti voglio credere. Mi piace sentirtelo dire, sembra quasi possibile, detto dalla tua voce; e mi arrendo, perché parlarti mi riscalda. Sperarti mi consola. Ti toccherò per l'ultima volta, prima di partire e mettere chilometri tra me e l’errore. È deciso. La cosa giusta la posso pensare domani. C'è tutta la vita per essere saggia. Per smettere di sanguinare, m’è rimasto solo domani. Se salvo noi, salvo me stessa. Salva per un solo giorno: meglio di niente. E arriva, quel domani sbagliato, ma bellissimo: tu entri dalla porta di casa mia e sento passare insieme all'aria fredda di Dicembre, tutte le volte prima, quando entravi nella stanza, con la musica di sottofondo, i vestiti invernali, quelli estivi, il riepilogo dei gol di Champions League, le valige e il tuo PC da caricare, il telefono che squillava a vuoto. Tu che entravi e andavi a fare la doccia e una volta ci hai pure cantato dentro e la mia casa suonava la tua musica. Io sorridevo, aspettandoti. Ci guardiamo. Le nostre risate sono tutte intorno a noi: quelle di prima e quelle di adesso, le ultime.   Sono imbarazzata e mi baci. Vorrei dire delle cose, continuare la frase di ieri, ma baci. Stringi forte e bacio e stringo forte e sento il tuo odore, la tua bocca. È questo, quello che voglio: che tu stringa così forte, da rendere inutili le parole. Ne abbiamo dette fin troppe. Così tante che hanno smesso di spiegare. Non servono più. Non servono, oggi. Ecco cosa voglio: che tu non dica altro. Che lasci parlare le labbra e quelle mani. Perfette. Che mi spieghino tutto quelle braccia, che stringono e che dicono ti voglio. E me lo dici, ti voglio. Sembra un sogno, quando temi che non sia vero: pizzichi forte, ché se non è vero ti svegli. Troppo bello per crederci, se poi non è vero. Hai cambiato profumo, ma sotto, c'è ancora il tuo. Ti riconosco a occhi chiusi. È passato tempo, eppure il mio desiderio brucia nuovo. Chissà il tuo, mi chiedo, e mi risponde il tuo corpo. Così i minuti si dilatano e poi si stringono e quei mesi spariscono e resta solo questa sera e la tua bocca. Non c'è neanche domani. Il tempo è un tappeto rosso che si srotola nel mio soggiorno e noi lo usiamo per farci l’amore sopra. Il resto sono immagini. Nude. Occhi che si allargano, per guardare i respiri. Sorrisi. Bocche che baciano il benvenuto al calore. Denti. Braccia troppo piccole, per afferrare tutto l’intorno. Lingue. Gambe che legano come noi non sappiamo. Labbra. Unghia che afferrano, per mantenerci in piedi, mentre tutto intorno gira, precipita, sparisce. Mani. Dopo siamo di nuovo vestiti, al localino blu, quello della nostra prima notte. Ci dividiamo una piadina e brindiamo con la speranza: che la fortuna per una volta ci assista, diciamo, mentre i nostri bicchieri suonano l’incontro. Perché non l'ha mai fatto fino ad ora e allora, perché no? Che sensi giocano, mentre il mondo ci circonda e noi due siamo ancora nudi, nella testa? Sorrido e ti parlo di errori, di speranze e di voglia.  La mia per te. Anche tu sorridi e mi racconti la tua vita strana, nella mia assenza. Me ne frego se ti voglio ancora, stasera. Sono felice seduta qui, perché di fronte a me c'è la tua idea: è giusto. Guardo ancora noi, nel riflesso dei vetri del pub, e siamo così belli. Mentre guardo, lo so che è un addio, per questo ti guardo bene. Guardo meglio te e me. Guardo più che posso. È l’ultimo di tutto. Ci diciamo anche le ultime bugie. Le ascolto tutte: ogni parola. Non voglio dimenticare niente. Voglio credere a tutto. È l’ultimo bicchiere, questo. Poi sei di nuovo nudo, in casa mia. Poi sono di nuovo nuda anch'io, in casa mia. Sei mio, in un modo che non so spiegare. So soltanto farlo e allora ti agguanto. Sei la mia voglia e comincia a gridarmi dentro la follia. Che amore si fa, quando serve a fermare il sangue? Quando resta solo una carezza ancora, per lasciare l’impronta? Mentre tutti e due sappiamo che, questa volta è per sempre, deve sostituire quella parola, addio, che non renderebbe giustizia alla bellezza? Quando per dirlo non puoi più usare parole? L’ultimo respiro è caldo. L’ultimo bacio brucia ovunque si posi e lascia il marchio. L’ultimo addio non si dice. L’ultimo orgasmo grida impotenza e fa eco.   Mi aggrappo alle tue braccia, a mani strette e tu non mi lasci questa notte, finché arriva mattina.   La bellezza è un attimo, proprio come la felicità. L’ho capito, quando m’è scappata dalle mani e non facevo niente per tenermela a forza. È arrivato l’addio. Non li conto più ormai. È uno di troppo. Da quando qualche mese dopo ha cominciato a fare un male diverso, so che mi hai cambiata due volte. La tua idea se n’è andata, da qualche parte. Non la cerco più da quella notte, l’ultima. È come smarrire un oggetto prezioso: quando smetti di cercarlo, lo trovi. Succederà così anche con la tua idea e con te. Un giorno ti troverò in un posto in cui mai ti avrei cercato. Ti vedrò lì, intatto e la tua idea tornerà a condire la mia saggezza con la sua verità semplice: il gusto della mia vita ha il pepe dentro: allegra, curiosa. Giovane come me, che rinasco ogni volta che cambio. Piccante.

 


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