Il dott. Pasquale Di Spena aveva scelto un nosocomio di Roma per farsi operare. Ma dopo l'intervento...
"Se io non fossi stato medico come sarebbe andata?"
Con queste parole marchiate a fuoco il dott. Pasquale Di Spena, medico dell’Ospedale Giovanni Paolo II di Lamezia Terme, m’invita cordialmente ad entrare e mi fa accomodare in una stanza piccola ed accogliente. Ha impresso sul volto l’espressione di chi ha un bisogno impellente di raccontare una storia e mi esorta ad ascoltare la triste vicenda di cui è stato recentemente protagonista:
"Il 13 giugno di quest’anno, per risolvere dei seri problemi urologici ho deciso d’intraprendere anch’io il viaggio della speranza, recandomi ad un noto ospedale di Roma. Preferisco ancora non fare il nome dell’istituto in quanto, nell’attesa che mi venga recapitato la documentazione riguardo al quadro clinico, sto ancora valutando la possibilità di rivalermi legalmente. Comunque, ritenendo rassicuranti i consigli di alcuni miei colleghi medici e considerato soprattutto che a Roma un intervento di tale delicatezza sarebbe stato eseguito con una metodica meno invasiva di quella classica, avevo ponderato bene la mia decisione".
Il dott. Di Spena è ancora in convalescenza, spera presto di poter tornare a lavorare, di tornare a curare quella sofferenza che, suo malgrado, gli è stata compagna fedele:
"Il giorno dopo il mio arrivo, sono stato sottoposto ad un intervento di chirurgia videolaparoscopica, una metodica chirurgica che prevede l’esecuzione dell’intervento mediante appositi strumenti introdotti nella cavità addominale attraverso piccoli tubi. L’impiego di questi strumenti permette di evitare l’apertura della parete addominale che tradizionalmente si rende invece necessaria".
Tutto rientra nella normalità, l’intervento è tecnicamente riuscito, è così che viene definito in letteratura medica. Mi aspetto che, da un momento all’altro, dal racconto spunti fuori l’inconveniente: "Dopo l’intervento rientro nella mia stanza. Da subito accuso dolori diffusi su tutto l’addome. Ovviamente, essendo anch’io medico, annoveravo questi spasmi tra le normali conseguenze del post-operatorio. Proprio perché era stata impiegata una metodologia non invasiva era stato calcolato che il periodo di degenza avrebbe avuto una durata di quattro, cinque giorni, al massimo una settimana. Pertanto, con animo sereno, aspettavo che il tutto finisse presto".
Fatto sta che, arrivato al quarto giorno di ricovero, il dott. Di Spena continuava ad accusare fitti e continui dolori addominali. Palpandosi l’addome avvertiva un certo gonfiore. Qualcosa non andava come avrebbe dovuto, la situazione cominciava ad essere preoccupante. Il dottore mi tiene in sospeso, mi guarda dritto negli occhi e finalmente continua, inorridito:
"Per tutto il periodo di ricovero non si è mai presentato un medico che mi posasse una mano sull’addome! Nonostante le mie insistenze. Le mie lamentele non venivano ascoltate, addirittura mi sentivo rispondere che in quanto medico tendevo ad avere una soglia di dolore molto bassa... Gli infermieri? Sì, vedevo solo loro, per la terapia, i prelievi, queste cose qui. Ma io intanto stavo sempre peggio, stavo così male che facevo anche fatica a reagire, non riuscivo neanche ad esprimere una parola di contestazione. Mia moglie, preoccupata quanto me, stava lì con me".
Legge sbigottimento sul mio volto, a volte basta un dettaglio per ispirare meraviglia. Io lo incalzo, lo invito a rendermi completamente partecipe del suo percorso e del suo calvario. Qualcosa si sarà mosso, penso, succede sempre qualcosa quando un uomo grida il suo dolore, è quantomeno una questione di sensibilità. Il racconto riprende:
"Finalmente chiamano un collega reperibile dell’area chirurgica, il quale mi visita superficialmente, mi palpa l’addome e mi dice di stare tranquillo, che fa tutto parte del normalissimo corso post-operatorio. Ma io non ero certo convinto, sentivo che non era affatto normale accusare ancora dei dolori. Fatto sta che, non subito dopo la visita di questo medico e dopo tanta insistenza da parte mia, vengo finalmente sottoposto ad una T.A.C. senza mezzo di contrasto, dalla quale, a loro dire, non si evidenziava nulla di preoccupante, ma soltanto la presenza di aria nel colon, nelle anse intestinali. Mi rimandano in reparto, ma io continuavo a non essere tranquillo, perché comunque soffrivo".
Eh già, non era affatto sereno. Del resto era un medico, uno di quelli che per professione eseguono diagnosi e prescrivono terapie. Auscultare e consultare l’aveva fatto tante volte, ma non gli era mai capitato di assistere all’incuranza di fronte al dolore. Ed ora, qui, di fronte ad un collaboratore de “Il Lametino”, tira un respiro profondo, cerca la sua attenzione prima di sboccare in una confessione: "Ho deciso di fare finta di stare meglio, perché preferivo che mi dimettessero, cioè non volevo dimettermi contro il parere dei sanitari. Loro erano ovviamente contenti, finalmente stavo meglio, ogni loro previsione si era avverata, e così mi rispedivano a casa con la mia bella terapia da seguire".
Riepilogando, il dott. Di Spena era stato ricoverato il 13 di giugno ed era stato dimesso il 20 dello stesso mese. Durante la nostra conversazione mi aveva ancora confidato che tale era il senso di abbandono da avere addirittura pensato di farsi portare da un’ambulanza ad un Pronto Soccorso di qualsiasi altro ospedale romano. Sua moglie ed un amico accorso al suo capezzale lo hanno poi convinto a desistere.
Intanto era riuscito coraggiosamente ad uscire da quella che considerava ormai l’anticamera dell’Inferno, ma si sentiva così male da far fatica a prendere persino l’ascensore. Seduto nella hall dell’ospedale, con un addome gonfio e dolorante, uomo debole e spossato che non dormiva da 5 notti, attendeva con ansia che arrivasse l’aiuto tanto sospirato. Aspettava qualcuno che da lì a breve sarebbe arrivato: aveva contattato i suoi amici concittadini, gli avrebbero mandato di corsa un’ambulanza da Lamezia Terme. "Se proprio dovevo morire", mi confida con gli occhi lucidi, "volevo che avvenisse nella mia città, tra i miei amici".
Evidentemente se sta qui a raccontarcelo, il suo è stato un percorso verso la salvezza. Adagiato sulla lettiga di un’ambulanza che in condizioni normali non avrebbe dovuto soccorrere "un paziente che usciva da un ospedale, perché di solito i malati vi entrano".
Dalle 18:30 che era partito il mezzo di soccorso, il dott. Di Spena arriva a casa sua verso l’una e mezza di notte. Il giorno dopo si sarebbe recato all’Ospedale di Lamezia.
Il dolore intanto cominciava anche a manifestarsi vistosamente: "Dalla ferita dell’operazione fuoriusciva una secrezione purulenta, il cosiddetto pus, prova evidente che era in corso un processo infettivo a carico dell’addome. Come medico avevo già intuito che si trattava di peritonite".
Eh beh, una peritonite. M’informa che tecnicamente è un’infiammazione, in genere dovuta a contaminazione batterica, del peritoneo, organo che ricopre le anse intestinali. Può sfociare in setticemia e portare fatalmente al decesso. Mica male per un’infezione, penso a voce alta. Il dottore fa un mezzo sorriso e continua:
"Il mattino dopo, sempre in ambulanza, mi sono recato in Ospedale, dove, senza passare dal Pronto Soccorso, sono andato direttamente nel reparto di Urologia. Lì fortunatamente erano già presenti i colleghi, il primario Zoccali, il dott. Umbaca e tutti gli altri operatori. Hanno provveduto subito ad effettuare i prelievi e mi hanno sottoposto con celerità ad un’ecografia. Evincendosi da questa la presenza nel peritoneo del liquido purulento, si è deciso di intervenire con urgenza. Sono stato quindi sottoposto ad un nuovo intervento durato quattro o cinque ore ed ho passato sei giorni in rianimazione. La situazione era alquanto seria".
Che cosa è successo? In quanto suo umile uditorio ho bisogno che il dott. Di Spena mi chiarisca le cause che hanno provocato un tale esito nel decorso post-operatorio. "Io non conosco esattamente il motivo per la quale c’è stata la complicanza", vengo subito accontentato, "infatti, ripeto, sto aspettando che arrivi la documentazione sanitaria cosicché possa trarne le dovute conseguenze. Personalmente suppongo che ci sia stata una perdita di sangue, che un ematoma si sia ascessualizzato e che da questo sia partito un processo infiammatorio. Dopo un intervento chirurgico le complicanze ci possono essere, non discuto questo, ma il fatto che il paziente non venga seguito come si dovrebbe durante il periodo post-operatorio questo denota negligenza, anzi lasciamelo dire con un termine volgare che rende di più l’idea: strafottenza".
Ma certo, che lo dica pure, è suo diritto. Io sono qui per essere la sua voce o, meglio, la sua parola. Che faccia bene o che sia senza costumi. E poi rilascia un sospiro, sussurra come se si sentisse in incognito davanti ad una solenne ingiustizia morale: "Come medico mi sono sentito, dal punto di vista deontologico, umiliato: chiedere aiuto ad un collega e non ottenere risposta non può che essere mortificante. L’errore ci può stare, ripeto, è umano, ma non si può essere negligenti, perché l’analisi del post operatorio è importante quanto l’intervento stesso, forse anche di più, è lì che si decide l’esito dell’operazione".
Non è che io mi sia sentito nelle condizioni intellettuali di corroborare le sue tesi, altresì considero altrettanto deontologico il tenermi parzialmente distante, ma fatto sta che di questa storia non riesco a non condividerne gli stati emotivi. Insomma il rapporto tra il mio mondo interiore e quello di questo mio interlocutore è tutto focalizzato sulla medesima linea di vedute, nella misura di un alto livello di empatia, soprattutto quando il dottore mi rende consapevole dei profondi motivi che lo hanno spinto a narrare le sue vicissitudini:
"Il mio non vuole essere un atto d’accusa, piuttosto vorrei che la si smettesse di pensare alla sanità in termini di guadagno o di spesa... io penso che il paziente debba essere il punto centrale intorno al quale ruota il satellite della sanità. Sento spesso parlare di numeri, del bisogno di effettuare un tot di interventi, della necessità impellente di produrre, ma l’uomo non è un prodotto, non è una bibita, non è una scatoletta di tonno!".
Il suo sguardo ora è rivolto ad un ideale originario di uomo, lontano da quello che oggi intende definirlo “animale tecnico”, secondo quel percorso tipicamente moderno che tende ad assorbire l’umano all’interno di un processo compiutamente produttivo. Un turbinio di rivoluzione umanista ora sottintende la sua storia: "Lì, in quell’ospedale, mi sono sentito un numero, un mero numero, perché ho constatato che non c’è stata quella vicinanza al paziente che richiede un’efficace degenza, non ho trovato un collega che si sedesse davanti a me per dieci minuti, che mi volesse dare ascolto, che venisse incontro ai miei dubbi... tra medici ci saremmo capiti al volo". Vuol essere, dunque, quello del dott. Di Spena, un messaggio di speranza, "un segnale di positività nei confronti dell’ospedale di Lamezia Terme", ma soprattutto un invito rivolto a tutti i lametini affinché ripongano più fiducia nei loro medici. Il concittadino Pasquale Di Spena, memore della sua esperienza, vuole ricordare che "tutto quello che luccica non è oro", che i cosiddetti grandi luminari della scienza a volte non sono che insensibili “impianti industriali” atti alla produzione seriale di interventi.
"Nel nostro nosocomio ci sono tantissimi medici di un certo livello. Certo ci sono anche gli irresponsabili, i fannulloni di turno, come ci sono ovunque. Certo non è un ospedale attrezzato per effettuare ad esempio operazioni chirurgiche come i trapianti, anche perché trattasi di un presidio ospedaliero di una piccola cittadina, però per tanti altri tipi di interventi posso assicurare che non è inferiore a nessun altro. E’ questo il segnale che voglio recepiscano tutti i cittadini lametini".
Pasquale Di Spena è un medico che ha intrapreso un viaggio importante per una città importante, perché si liberasse da un serio problema di salute, ma ha conosciuto infine come rinnovare e migliorare il mondo del più trito dei luoghi comuni, quello che vuole la sanità del centro e del nord Italia panacea di tutti i mali, ed ha preso coscienza che a volte dilapidare quest’eredità culturale non è un’ignominia, ma piuttosto un’opera di redenzione: "E’ paradossale", mi ripete due tre volte, facendo di “no” con la testa, "è paradossale che si debba tornare a casa, in un ospedale di provincia, per essere salvato: alla fine il vero viaggio della speranza è stato quello che ho intrapreso da Roma per raggiungere Lamezia, dove infine ho trovato salvezza".
E se anche gli angeli hanno un nome, non può fare a meno di sciorinare la sua lista di misericordiosi soccorritori:
"Voglio ringraziare il dott. Zoccali, il dott. Umbaca, l’unità operativa di Urologia e tutto il personale medico e paramedico; il primario di Chirurgia, il dott. Nucera che si trovava quella sera in sala operatoria e che ha collaborato con il dott. Zoccali. Ringrazio il primario della Rianimazione, la dott.ssa Mancini, e tutti i colleghi del reparto; ringrazio il dott. Santo Lio del reparto di Anatomia Patologica e tutti i suoi collaboratori; tutti i colleghi del 118, che in questa mia brutta vicenda mi sono stati sempre vicini ed hanno sofferto con me. E poi ancora non posso non ricordare tutti gli amici che mi sono stati accanto, chi ha affrontato il viaggio restando con me a Roma e chi è scappato per venirmi a prendere. Un ringraziamento a parte va a mia moglie, inseparabile compagna nel dolore, sempre prodiga di sorrisi e di amore".
A questo punto della nostra chiacchierata gli ricordo di non aver ottenuto risposta dalla domanda con cui ha audacemente esordito; storce il naso, come fosse nauseato da quello che potrebbe osare sentenziare: "Se io non fossi stato medico come sarebbe andata? Beh, posso immaginare quei poveracci che non lo sono... penso che qualcun altro al posto mio, in quella situazione, si sarebbe tranquillizzato, sai com’è, quando uno specialista di un rinomato ospedale ti assicura che tutto sta proseguendo per il verso giusto, come si fa a non credergli? Se io fossi rimasto forse non starei qui a raccontarlo...".
Alla fine il dott. Di Spena mi stringe la mano, la sua presa è ancora troppo debole per trattenere a lungo la mia, ma certamente trasmette tutto il calore di uomo ritrovatosi dall’essere quella banale cifra di un infimo calcolo probatorio. Mi ringrazia con affetto (di cosa dottore, di aver dato ascolto ad una testimonianza coraggiosa?, ndr), gli sono grato.
E poi mi lascia con una battuta che ha tutto il sapore amaro di una piccola rivincita:
"Alla fine non ero io che avevo una soglia del dolore bassa..."
Da "Il Lametino", 22 ottobre 2011