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Sopravvissuti agli anni ’90: Brant Bjork e Monster Magnet

Creato il 28 gennaio 2015 da Cicciorusso

the watcher

Una strisciante voglia di revival anni ‘90 e la similarità di alcune band oggi piuttosto in voga (Red Fang, Mastodon nuovo corso) sembrano aver rimesso in moto la dune buggy guidata dalle vecchie glorie dello stonerone prima maniera. Se la spinta iniziale è stata un po’ nostalgica (nessuno ne è immune), c’è da dire che il valore medio delle varie release si sta rivelando piuttosto alto e ha riservato anche grosse sorprese in positivo (Karma To Burn, Fu Manchu, il singolo degli Sleep). Negli ultimi due anni (molto spesso grazie alla Napalm Records, sotto la quale escono anche i due album di cui si parla oggi), abbiamo rivisto in gran forma gente che da circa un decennio sembrava aver imboccato un dignitoso, quanto inesorabile, viale del tramonto. Fra questi ci sono Brant Bjork e Dave Wyndorf, entrambi veterani della scena e rappresentanti di modi differenti di interpretare la materia che potremmo facilmente riassumere nella dicotomia East/West coast.

A rappresentare la costa Ovest abbiamo Brant Bjork che, grazie a Vista Chino, è ritornato dopo parecchio tempo a mettere il proprio nome su un album di una certa sostanza. Il musicista di Palm Desert è uno dei cardini dell’intera scena fin dai suoi inizi ed ha suonato su svariati fra migliori capitoli della saga dello stoner rock (e sul suo capolavoro assoluto Sky Valley). La sua prolifica carriera solista post Fu Manchu tuttavia non presenta episodi davvero memorabili (ad occhio direi l’esordio Jalamanta e Saved By Magic a firma BB & The Bros, che forse però finisce qui più per l’eccezionale qualità live di quella formazione che per il disco in sè). Il sound del Bjork solista, partendo dall’imprescindibile psichedelia desertica, è con il tempo ripiegato verso un hard rock più classico, sempre fico ma mai trascendentale. Il nuovo Black Flower Power firmato in collaborazione con una fantomatica Low Desert Punk Band (nome della band e titolo dell’album, entrambi fichissimi) rimane un po’ nel solco di quelle cose e, pur avendo parecchi riff azzeccati e una ritrovata pesantezza, sembra mancare di quel qualcosa che potrebber portarlo ad un livello superiore. Per dire, alcuni dei brani con un Garcia alla voce avrebbero avuto tutt’altra efficacia complessiva. Tirando le somme, l’episodio migliore dell’album è la conclusiva Where You From, Man che nella sua natura di semi-cazzeggio riporta un po’ tutto a casa, è roba grezza, fatta per essere sparata a palla delle casse di una decappottabile mentre sei intento a guardare culi formosi di ragazze latinos che vanno sui pattini di un qualche lungomare della California del sud. Che poi è proprio quello che noi a Metal Skunk facciamo quotidianamente, che noi siamo mica gente che passa le serate da sola con le cuffie a scrivere per un blog di metallari.

Il processo di distacco dalla realtà continua e si amplifica nel passaggio solo apparentemente complesso che va da chiappe e palme a superpoteri e viaggi interstellari, tutti miti imperituri che hanno forgiato legioni di disadattati e che si sublimano da sempre nella musica dei Monster Magnet. Consapevole di aver tirato fuori “il cappello dal cilindro” (Giovanni Trapattoni – Op. Cit.) poco più di un anno fa con l’ottimo Last Patrol, l’oramai quasi sessantenne (‘azz!) Dave Wyndorf ci ripropone il medesimo album in versione deviata. Miliking The Stars è una sorta di What If della Marvel in chiave rock and roll con Wyndorf stesso nei panni de L’Osservatore. La rivisitazione ci riporta al sound pre-Powertrip in maniera ancora più marcata dell’originale attingendo senza vergogna ai trucchi spaziali di scuola Hawkwind et similia. L’idea è un po’ una cappellata ma di sicuro in linea con quello che da sempre è l’immaginario della band e, al netto della furbata, il risultato è ottimo. Alcune delle nuove versioni sono effettivamente meglio degli originali (Mindless Ones imbottita di organo è un’altra storia rispetto al singolone facile della versione già nota). In altri casi il cambiamento è più sottile ma comunque non indifferente ma sono i brani ‘nuovi’ (a voi riconoscere alcuni dei frammenti da dove provengono) ad essere la parte più sugosa del tutto. Fra tutte spiccano No Paradise For Me che sembra uscire diretta dalle sessions di Dopes To Infinity o il grandioso strumentale in apertura (Let the Circus Burn) che ci riporta in piena area Superjudge e si candida a pezzo di apertura dei loro show da qui a alla fine del tempo. Bene così e avanti tutta, fino alla prossima galassia.



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