Stamattina fa freddo, meglio tenere il finestrino aperto solo due dita, il minimo indispensabile per fare uscire il fumo della sigaretta. Che già fumare a quest’ora, chiuso nell’auto accesa per riscaldare l’abitacolo ma ferma nel parcheggio sotto il portone, significa omaggiare il resto del pianeta di una dose doppia di smog. I due scarichi gassosi si mischiano fuori alla nebbia e insieme avviluppano l’utilitaria malconcia, nascondendo alla vista dei passanti come me la passeggera seduta dietro, che poi è la figlia dell’inquinatore consapevole. Nata con un deficit intellettivo di una percentuale abbondante oltre la metà in una famiglia che, messi insieme, non riesce a colmare l’altra, da sempre sfrutta l’ausilio delle strutture di sostegno e ora, mentre tutti i suoi coetanei sono quasi adulti, aspetta come ogni giorno nella sua dimensione infantile scomoda in un fisico indeciso sulla categoria a cui appartenere il furgone dei volontari che portano un nutrito gruppo di meccanismi difettosi ai rispettivi impieghi, reali e fittizi. Il padre, al posto di guida, tra una tirata e un’altra non muove un muscolo della faccia, l’espressione probabilmente bloccata da sempre come un calco nel gesso da quando ha ricevuto la notifica che la vita normale, da quel momento, mai più sarebbe stata. Ma non è un buon motivo per affumicare una persona anche se non è del tutto registrata e anche se lei, dietro, sembra non curarsi della cortina che si addensa dentro e fuori l’abitacolo. Per la ragazza non fa differenza nemmeno quello, finché il furgone affianca l’auto, il padre ne esce e trasborda quell’enigma che occupa una stanza del suo appartamento su un vettore più adatto, accudita da mani più esperte, in una dimensione più a misura di disagio. Lei si getta sul sedile a fianco dell’autista, che alla fine è il più rassegnato di tutti. Il padre risale in macchina e questa volta mette la prima e parte, in perfetta sincronia con i saluti della figlia, che non restituisce.
Il posto macchina ora è libero, nemmeno un minuto e ci si fionda una fiammante city car multicolore, una di quelle auto che sembrano progettate da un pasticciere. Dentro c’è l’impiegata dello studio del geometra ubicato di fronte, tira il freno a mano ma nemmeno lei non spegne il motore. Dallo specchietto retrovisore nota che l’ufficio ha ancora le serrande chiuse, ne approfitta per accendersi una sigaretta, lasciar sfumare la canzone di Vasco Rossi – che è appena all’inizio, riconosco la strofa – e cancellare dallo smartphone un po’ di messaggi obsoleti. A differenza di chi ha stanziato in quel punto poco prima non apre il finestrino, lascia che il calore non tracimi e nemmeno il fumo, chi se ne importa. Nello studio lavorano in due, lei e il geometra che è sempre fuori a controllare i condomini che amministra. Non ha colleghi, in ufficio è sola quasi tutto il tempo. Vive in un paese sulla stessa circonferenza esterna alla metropoli, tanto che è impossibile recarsi in ufficio con i mezzi a meno di non dover passare per il centro e poi tornare su per un raggio diverso. In auto è a pochi minuti da casa, invece, che diventano più di venti nelle ore di punta e che trascorre in compagnia della radio. Da periferia a periferia. Sul cruscotto e sul divanetto posteriore un’orgia di animali di peluche di ogni ordine e grado, sdraiati in posizioni innaturali, sicuramente impregnati di nicotina e di silenzio, come la loro proprietaria umana. Che apre la portiera e getta la sigaretta sull’asfalto e la richiude, il geometra non è ancora arrivato è c’è il tempo per mettersi il rossetto.