Titolo italiano: Space vampires
Titolo originale: Lifeforce
Regia: Tobe Hooper
Soggetto: basato sul romanzo The space vampires di Colin Wilson
Sceneggiatura: Dan O’Bannon, Don Jakoby
Genere: Horror, Fantascienza
Anno: 1985
Non essendo una esperta di cinema, la prima cosa che mi viene da dire riguardo al film è che non avrei mai detto che alla regia ci fosse l’Hooper che ho conosciuto con Poltergeist. Potrei aggiungere malignamente che se questo è il risultato di ciò che è capace di fare se lasciato a se stesso, allora grazie Cthulhu perché con lui, dietro la macchina da presa sul set di Poltergeist, c’era Spielberg! Ma quasi certamente sarebbe fuori luogo, da parte mia, visto che di Hooper non conosco altro. O probabilmente sì e nemmeno lo so.
Resta il fatto che ho amato questa carnevalata da ragazzina, mentre adesso — come dicevo qui — evito di stroncarlo e gli do un “meh!” solo perché, in fondo, è stato comunque capace di divertirmi di nuovo, dopo una ventina d’anni di oblio.
Il film è deboluccio, proprio gracile, e ho idea che lo si ricordi più per il nudo della bella Mathilda May che per altro… ma le scene dell’invasione vampirica di Londra fanno sempre un certo effetto. E questo nonostante i vampiri rinsecchiti, affamati di energia vitale, facciano quasi ridere. Come i pipistrelloni, che sono la vera forma degli attraenti Space Vampires. Eppure, quanto mi avevano colpita da ragazzina! Adoravo il momento in cui le mummiette vampire tornavano in vita, così fameliche da scagliarsi contro le sbarre delle celle in cui erano rinchiuse, per agguantare le prede al di là, e ridursi in polvere. Persino adesso queste scene continuano ad affascinarmi, nonostante una parte di me sghignazzi di fronte alla scemata di creature così altamente “virulente” custodite in comunissime gabbie e non in un luogo più isolato, ben protetto e monitorato.
Dell’impianto del romanzo da cui è tratto, il film di Hooper mantiene giusto giusto l’elemento della caccia di Carlsen per impedire che la peste spaziale venga diffusa all’intera Inghilterra e quello sessuale, reso esplicito dal nudo della May e dall’ossessione amorosa dell’astronauta per la Space Girl. È su questo sentimento, più che sul vampirismo negativo di Wilson, che si regge la storia del film. Il quale se ne va poi per i fatti suoi, sconvolgendo del tutto il destino dei personaggi e la trama stessa del romanzo. Per fortuna! Perché Space Vampires è un film brutto, ma nella sua bruttezza si è comunque ritagliato il ruolo di cult e per certi versi gli si può concedere che lo sia. Mentre il romanzo mi ha lasciato ben poca impressione positiva.
In realtà, la prima cosa che ho pensato, all’inizio della visione, è che la parte dedicata all’esplorazione dell’astronave aliena è pessima: confusionaria e priva di pathos, non rende niente del senso di meraviglia che esprime il Carlsen uscito dalla penna di Wilson. Gli effetti speciali la rendono ancora più insopportabile. Rispetto a questi primi minuti, tutto il resto risulta godibilissimo quasi per contrasto, nonostante alcune scene — come quelle girate in una Londra notturna e caotica — siano talmente cupe da risultare confuse.
Eppure, per quello che mi riguarda, questo film esercita una certa fascinazione, esattamente come i suoi vampiri rinsecchiti che, tornando alla vita, pur come sono ridotti riescono ad attrarre a sé una vittima da prosciugare.
Pur non essendo una novità assoluta, i vampiri alieni di Hooper sono comunque qualcosa di innovativo, entro certi limiti; sono una variazione di quello classico e hanno una connotazione più horror: il Nosferatu calvo di Klaus Kinski e quello spettrale e ipnotico di Lugosi, vengono rimpiazzati da creature perfette, che corrispondono all’ideale sessuale delle proprie vittime, perché ne leggono la mente e si conformano ai loro desideri. Rispetto al romanzo sono più fameliche ed esercitano un incanto più forte, che non da scampo.
Anche nel film l’elemento fantascientifico fa solo da sfondo, pur essendo più presente di quanto non sia nel romanzo. Il design esterno dell’astronave è da sempre uno di quelli che mi piace di più. La conclusione la trovo meno raffazzonata rispetto a quella di Wilson, più coerente con gli eventi e con il personaggio di Carlsen, che qui è molto meno eroe, meno padrone di sé, più disperatamente innamorato e più succube.
Ciò non toglie che il risultato sia alquanto dozzinale e superficialotto: non c’è niente della ricerca delle origini di questi vampiri su cui si fonda il romanzo, al fine di capire come fermarli. Il modo di ucciderli è quello classico, anche se un filino più scenografico, visto che il modesto paletto di legno viene sostituito da una spada. A proposito: nel cast c’è Patrick Stewart nel ruolo del dottor Armstrong, direttore del manicomio in cui lavora l’infermiera Ellen. O quest’uomo è nato con quella faccia o è davvero immortale o è un vampiro.