In una sala di specchi non c’è modo di voltare le spalle a te stesso.
H.Miller
Claudia Balzani. Niente di personale Daniel, ma le tue foto non mi convincono.
Nel Marzo 2012 Daniel Kukla ha vinto una residenza d’artista sponsorizzata dall’Ente per i Parchi degli Stati Uniti presso il Joshua Tree National Park in California. Nasce da questa esperienza il progetto fotografico The Edge Effect, la cui traduzione in gergo ecologico è l’effetto margine che scaturisce dallo scontro-incontro di ecotoni[1]…leggete pantoni? Deformazione professio-personale perché ora parliamo proprio di ecotoni, in altre parole quegli ambienti di transizione tra due ecosistemi, si tratta di superfici in cui si osserva un livello di biodiversità elevatissimo, questi sono l’anello di congiunzione tra sistemi molto diversi tra loro.Sono una cristallizzazione delle fasi di transizione.
Proprio in queste zone di margine risaltano le proprietà distintive delle diverse parti tanto da creare un effetto straniante: questo progetto fotografico intende disarmarci, ingannare il nostro occhio per portarci a conclusioni biodiverse.
Il fotografo americano riesce a far riflettere queste superfici sulla stessa immagine per cui una porzione di sguardo, che subentra sulle punte dei piedi e va a posizionarsi al centro della tela, risulta una crepa della visione. Come se fosse stato possibile, per pochi istanti, sovrapporre il dietro al davanti, con un trucco d’artista ma soprattutto con un cavalletto d’artista.
Dopo un Baccellierato in Scienze ed un programma annuale presso il centro internazionale di fotografia di New York (specializzandosi in fotogiornalismo e fotografia documentaria), possiamo delineare il profilo biofotografico di Daniel Kukla come un professionista ai margini dell’arte, appartenente a quella sacca della fotografia documentaristica in cui l’arte stessa arriccia le fotografie alla scienza e quest’ultima dà maggior validità ed al contempo invalida le ricerche artistiche, secondo un metodo di verifiche ed ipotesi.
Queste immagini sono figlie di una grande intuizione: la sovrapposizione sempre straniante di due visioni, opposte nella realtà, e la fusione di questi diversi aspetti in un unico piano. Infatti, mentre le pubblicità di oggi ci mostrano come sia possibile scattare una foto con il nostro iPhone semplicemente ruotando il telefonino attorno al nostro corpo (ottenendo così una panoramica circolare), Kukla invade la nostra porzione di sguardo con un inaspettato riflesso; questa particolare porzione poggia su un cavalletto d’artista come fosse un dipinto mutevole abbandonato nel parco nazionale.
In questo caso i contrasti sembrano dipingere immagini cromatiche in forte opposizione con il paesaggio retrostante: sono cieli in angolazione, nuvole con riflessi leggeri, volte celesti circondate da radure.C’è qualcosa all’interno di queste immagini che non mi convince, il mio stupore iniziale non era altro che disorientamento, mi risultava difficile capire la composizione dell’immagine, finché, svelato il trucco della visione virtuale, qualcosa si è dissolto.
Ed è la sensazione che queste immagini parlino di un mondo ma in maniera troppo estetizzante. Queste fotografie si trasformano in un linguaggio (se mai fosse possibile, sarebbe un linguaggio internazionale) semplice ma probabilmente troppo superficiale, i giochi di sovrapposizione tra virtuale e reale risultano interessanti tuttavia troppo vicini ad una ricerca cromatica ed armonica in stile National Geographic.
Le fotografie danno l’idea di trovarsi in un set cinematografico, sono immagini molto limpide e prive di rumore di fondo. Ho cercato tanto e non ho trovato il mio punctum[2] o meglio il punctum non ha trovato me; queste immagini sembrano impregnate di studium, portano lo spettatore ad informarsi per gestire questo genere di figure, l’importanza del titolo e la collocazione spazio temporale degli scatti. Queste immagini sono un approfondimento; eppure non toccano il mio profondo, lasciano una sensazione ben lontana dalle ricerche (una di queste sempre con l’immagine riflessa degli specchi) di Robert Smithson, artista della land art, totalmente sedotto dai grandi processi di trasformazione naturale, fossero questi fluidi o materici, caotici e casuali. Si parla però degli anni ’70 in cui si pensava ancora di poter lasciare una traccia umana rimodellando il paesaggio, osservando e modificando, in una presa di coscienza dell’uomo sull’ordine naturale e sulle sue trasformazioni.
Daniel, manca qualcosa, ma non so cosa.
[1] Dal greco oikos (casa, ambiente) e tonos (tensione)
[2] All’interno della Camera Chiara (1980) Roland Barthes identifica due modi che ha lo spectator di fruire una fotografia:
- Lo studium è l’aspetto razionale e si manifesta quando il fruitore si pone delle domande sulle informazioni che la foto gli fornisce (costumi, usi, aspetti).
- Il punctum, è invece l’aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto.